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L'eclissi della poesia, di Mauro Ferrari

Quale poeta cinquantenne ha oggi la riconoscibilità indiscussa che ebbero, alla medesima età, autori di un recente passato?

Enrico Testa, Dopo la lirica, Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino 2005, pp. xxxi.

L’altro ieri: La Scuola

Quando diedi l’esame di maturità nel 1978 gli autori più recenti per l’esame di italiano erano Ungaretti, Saba e Montale, ancora vivente (1981). Dovendo ogni anno ascoltare le prove orali noto che il baricentro del programma di Italiano è ancora rappresentato da questi nomi; e non ne faccio una colpa degli insegnanti, sia chiaro, perché se passo all’Inglese (materia che io insegno) so quanto si fatichi per presentare scrittori attivi nella seconda metà del Novecento, per non parlare del contemporaneo, affidato a più o meno estemporanei Incontri con l’Autore. In sostanza, si può ben dire che i programmi degli ultimi cinquanta anni non hanno tenuto conto del passare del tempo. Né è un problema dei libri di testo, i quali presentano almeno molti autori degli anni Sessanta e Settanta... per poi fermarsi, o peggio inserire Vivian Lamarque... o comunque sbiaditi epigoni di chi forse è già un epigono: si tratta comunque di una parte di programma che in genere non viene raggiunta, in quanto sappiamo che, partendo dalle origini e seguendo una scansione più o meno “tradizionale”, non c’è modo di arrivare alla contemporaneità, per presentare autori viventi cioè, e magari incontrarli dal vivo – per rendere la letteratura qualcosa di vivo. Lo stesso discorso si potrebbe applicare alla Storia e alla Filosofia: sembra quasi che la Scuola non voglia o non sia stata in grado di seguire l’evoluzione di quel “mondo reale” tanto invocato da politici e burocrati. Tutto ciò che accade dopo il 1960 scompare letteralmente dal panorama scolastico ma anche culturale del Paese, come se la poesia e non solo cessasse di esistere; anzi, di Montale viene spesso trattata solo la prima fase, fino a La bufera e altro – del 1956, oltre sessanta anni fa. Qui si ferma l’idea stessa di poesia, cioè che essa serva a rappresentare il mondo. Se è così, aboliamola dai programmi.

Ieri: Un breve excursus

La svolta di Montale comincia con Satura, del 1971, così importante per annullare il divario fra la lingua della poesia e la lingua parlata (il “depotenziamento dell’espressione poetica”) ma anche fondamentale per mettere fra parentesi l’ottimismo sui destini della storia e del singolo. Giustamente Roberto Galaverni (Dopo la poesia, p. 87) parla di primo libro “dopo la poesia”. La stessa cosa vale anche per Pasolini, il cui Transumanar e organizzar è sempre del 1971.

E poi? Ci siamo persi Vittorio Sereni (un giovane: classe 1913...), che fin dagli anni Quaranta adotta un linguaggio antiletterario ma profondissimo nel confrontarsi con il mondo e con le più ampie problematiche. Ci siamo persi Mario Luzi (altro ragazzino del 1914), poeta​ del rovello filosofico e religioso, ma sempre più calato, e sottolineo Per il battesimo dei nostri frammenti (1985), nella problematicità del mondo. Questa terza generazione (aggiungo Caproni, del 1912) centralizza l’Io poetico in relazione a un territorio in cui identificarsi in vario modo, con esiti anche molto vari: è l’ultima generazione per cui questa operazione può assumere un senso, e cito l’emblematico Dal fondo delle campagne di Luzi, del 1965.

Per la generazione successiva (Raboni 1932), ma comunque un po’ in tutti dopo il 1965 (l’anno del Congedo di Caproni e degli Strumenti umani di Sereni) l’idea di un’appartenenza al territorio, perlopiù rurale, ma anche a una storia, diventa sfuggente, vaga, trasformata semmai in una verticalità della metafora e del simbolo, mentre emerge la metafora della città anche in parallelo con l’affermarsi dell’editoria milanese (ricordiamo la direzione mondadoriana di Sereni, e poi quella attuale di Cucchi, classe 1945). Si tratta di una svolta epocale, ben colta da Galaverni e Salvatore Ritrovato, che conferma la fine dell’idea di poesia “forte”, di un “Soggetto trascendentale”, che ha luogo appunto alla fine della Modernità, fra gli anni Sessanta e Settanta, con il crollo dell’idea di responsabilità riconosciuta della poesia (più che del poeta) nei confronti del mondo e con la nascita della Società dello spettacolo, poi dell’interconnesione solitaria. L’effetto è la progressiva sparizione delle poetiche, in favore di pratiche personali non di rado idiosincratiche, anche perché non sorretta da una critica.

Le migliori formule che ritraggono questa situazione caotica sono gli “effetti di deriva” (Alfonso Berardinelli, 1975) e “poesia postuma” (Cordelli, Il poeta postumo, 1978)...: la poesia non è più al centro, anzi è periferica, e l’irruzione di questo Io privato è tutto sommato giustificata dalla perdita di aureola, dall’inutilità del Mestiere di poeta di cui parla Ferdinando Cambon nel 1982. Non a caso, Galaverni intitola il suo saggio Dopo la poesia (2002); l’antologia di Enrico Testa si intitola Dopo la lirica (2005); Giulio Ferroni, giusto per andare sul sicuro, intitola un saggio Dopo la fine (2010); insomma, la catastrofe c’è già stata.

La fine delle avanguardie è comunque sì il momento di ricostruire, ma Su fondamenta invisibili (cito Luzi, 1971). Si impone, a parte il protrarsi dello sperimentalismo, una duplice opzione, anche se al di sotto di queste linee sta il problema della lingua, che varia dallo stile iperletterario e retorico al basso colloquiale della Linea lombarda. Il contrasto, in realtà, non è tra i moduli espressivi, in fondo tutti leciti, ma tra gli esiti a cui questi conducono, cioè alle cose che vengono dette; è un contrasto fra gli estremi di una affabilità superficiale alla Patrizia Cavalli, alla Zeichen o alla Lamarque e una complessità sempre più sterile, affidata a una sempre più anacronistica opacità del testo. Anche se la vera poesia è profonda, difficile ma anche comprensibile perché non gioca con il linguaggio e con il lettore, ma esige semmai il massimo impegno, la massima concentrazione che sappia confrontarsi con la concentrazione (uno dei sensi di Dichtung, poesia) del testo.

Dicevo del contrasto fra due opzioni. La prima è rappresentata da un ritorno al confessionale, come accade con una generazione torturata e che comunque sta vivendo il passaggio epistemologico sulla propria pelle: cito almeno John Berryman, 1914, suicida; Robert Lowell, 1917, interessante caso psicotico; Anne Sexton, 1928, suicida; Sylvia Plath, 1932, suicida. In Italia ne sono emblemi Giovanni Giudici e Giovanni Raboni, forse il più grande dei poeti delle ultime generazioni. È un riferimento al privato che non è necessariamente una chiusura, anche se succede al momento storico in cui il privato è stato politico: ma ancora in Raboni la passione civile e politica va di pari passo con la vena elegiaco-personale – si veda Ogni terzo pensiero (1993), o si meditino questi versi, così diretti, così personali, ma cosi intrisi del presente (da Barlumi di storia, 2002):

Per nessuna ragione,

sapendo quello che succede,

mi vorrei svegliare in questo mondo.

Dall’impoverimento di questa forza, diciamo dal 1995, deriva il Minimalismo autobiografico, “l’etica del quotidiano” che è una degenerazione di questa altezza, ed è la linea scelta dalle superstiti (di fatto, una sola Idra). Il ritorno all’Io intimista, per quanto franto e sfuggente, è ancora una modalità fertile se praticata da poeti del calibro di Raboni, Giudici e Piersanti, ma nella successiva generazione o mezza generazione (Conte 1945, Cucchi 1945, Milo de Angelis 1951, Mussapi 1952), l’Io dei poeti comincia ad essere disperso nel mondo, alla deriva, incapace di interpretazioni razionali se non per lacerti. Emblematico è appunto il titolo del libro di Maurizio Cucchi (1976).

Intanto, , il “genocidio culturale” di cui parla Salvatore Ritrovato in : nel pensarla debole, forse perdente. Se la poesia insegnata a scuola si ferma al 1956, la visibilità pubblica della poesia finisce con questa generazione (e la finta democratizzazione di internet non c’entra nulla, anzi!).

La seconda opzione. Dall’altro lato, specie dopo il 1977 (gli anni di piombo e poi il Riflusso), si impone però l’esigenza di rifondare la poesia su ipotesi puramente letterarie, e anzi a volte iperletterarie, che sottolineano quella che Enrico Testa ha definito “l’aspetto differenziale della poesia”, la sua elusione del linguaggio comune, lo scarto dalla banalità che comincia a farsi strada nella coscienza di molti. Questa generazione, che potrebbe rappresentare il primo accenno di Postmodernismo, è fortemente milanocentrica ed epigonica nei confronti della Linea Lombarda di Anceschi e del post-orfismo di Niebo (1977-1980). Si esprime anche con movimenti più o meno effimeri come la Parola innamorata (Pontiggia 1952) e il Mitomodernismo, più fiorentino e romano che milanese, che pone almeno al centro una ipotesi massimalista: la rivivificazione del Mito, della sua solarità (Conte) ma anche della sua umbratilità possente (Mussapi), ben lontana dall’“etica del quotidiano” milanese (definizione di Giovanardi).

Oggi

Questa “perdita di aureola” assume varie connotazioni: la sparizione della poesia e dei poeti dai media se non come triste spettacolo di casi umani; l’eclissi del dibattito critico sul contemporaneo e dell’interesse accademico, per cui i critici non osano più fare nomi, proporre scelte, fare insomma critica se non per promuovere cricche più o meno clientelari. La poesia sparisce per conseguenza dalle librerie, dalle biblioteche, dalle università, dai giornali, anche se sopravvive in forma più o meno sotterranea, spesso autoreferenziale, amicale, perché l’alfabetizzazione ormai universale permette a tutti di scrivere – e pubblicare, su carta e poi su internet – quella similpoesia di cui parlava Carifi: cioè perlopiù notazioni di sentimento personali, diari in versi più o meno astuti.

Purtroppo, chi gli strumenti critici ed espressivi li ha spesso si piega a una idea di poesia affabile, dal testo povero: credo di essere stato il primo ad avere usato la formula “Minimalismo autobiografico”, che inchioda questa versione del realismo, con la sua quota di facile narratività e di cucchismo d’accatto: però, almeno, il primo Cucchi attuava una rivoluzione gnoseologica, tanto che giustamente Giorgio Linguaglossa (Appunti critici, p. 63) parla di “disseminazione non dei significati, ma degli indizi dei significati” – da cui, appunto, l’Io “disperso” per cui i valori sono tutti equivalenti, e la scelta è indecidibile; man mano però, i poeti più giovani che sembrano fargli il verso paiono trovarsi a proprio agio in un mondo di oggetti e di narrazioni personali apparentemente veri – proprio mentre il mondo sta perdendo ogni facile comprensione!

Valerio Magrelli (classe 1957, ma esordisce precocemente nel 1980) con Ora serrata retinae apre quella che è forse la sesta generazione, dei poeti giunti alla maturità, che hanno un connotato assolutamente nuovo, in parte valido anche per la generazione successiva, quella dei “giovani” oggi trentenni: Dice Piccini: «Direi che si fa strada un procedere pragmatico, definitivamente antideologico e antidogmatico . . . Resta intatta la frammentazione delle ipotesi operative, delle molteplici concezioni possibili di tradizione, mentre addirittura si intensifica la percezione della crisi epocale dello strumento poetico.»

(Daniele Piccini, https://www.andreatemporelli.com/2016/07/19/la-sfida-delle-ultime-generazioni-del-900-piccini/)

Io abito il mio cervello come un tranquillo possidente le sue terre

Scrive il giovanissimo Magrelli: questi due versi inaugurano la poesia contemporanea, almeno come possibilità di ritornare a una pratica poetica che parli del mondo, lo veda, lo interpreti e lo comunichi pur nella “crisi epocale dello strumento poetico” e dell’epistemologia. E questo io, che cerca di ricentralizzarsi pur se conscio della disperazione epistemologica in cui vive, a volte cerca di uscire dal solipsismo cui pare condannato da una società mediatica che collega e unisce tante monadi solitarie aprendosi: è un io debole che non è rifugio, ma anzi spazio di incontro, di accoglienza. Lo vediamo in alcune voci che per questo ci parlano con voce ferma e pacata. Si veda la presa di distanza dal mondo di un Morasso che si sente fuori chiave col proprio tempo, parla di ascesi e attende il ritorno della “grandezza”, ben sapendo che è un mito, ma intesse reti di relazioni ideali; o un Olivieri, che parla sì di un Io confessionale (non vedo che male ci sia a parlare di sé, come Petrarca o Yeats...), ma in cui è evidente come questa debolezza è proprio per questo spazio di apertura, disponibilità al dialogo. È un elemento che troviamo nell’ultimo straordinario libro di Gianfranco Lauretano, Rinascere da vecchi, che parla di rinascita, rinnovamento, spinte e motivazioni ritrovate nel dialogo con il mondo: «Riallacciamo rapporto, mondo» (p. 26). O che troviamo da tempo nella poesia di Ivan Fedeli, in cui l’Io si fa davvero punto di vista, (stravolto: si veda la splendida metafora degli Occhiali di Sartre che danno il titolo al suo ultimo libro), o meglio binocolo sul mondo: un ente senza storia che osserva, annota la disperazione ontologica ma la speranza che non muore.

*

Appartengo alla generazione nata con Valerio Magrelli, l’ultimo poeta che esordisce giovane (1980, a 23 anni) con un grande editore; prima, appunto, che la grande editoria si disimpegnasse, per dirla elegantemente, nei confronti della poesia chiudendo collane o riducendole a testimonianza di poche centinaia di copie tirate (immaginiamo le vendite...). Recentemente abbiamo assistito a una vera ecatombe della media e piccola editoria storica: Feltrinelli, Guanda, Donzelli, Marietti, Pequod, Scheiwiller, Crocetti L’obliquo, con tentativi di ripresa sempre più deboli, e altri editori specializzati che hanno perso peso, tra cui Manni e Campanotto. Esistono oggi due collane davvero nazionali, cioè almeno in teoria distribuite capillarmente sul territorio nazionale, per quanto questo non incida più di tanto su visibilità e vendite: Lo specchio Mondadori e la bianca Einaudi, per un totale di 5-8 titoli, incluse le traduzioni. Collane che non prevedono neppure comitati di lettura e redazione... quando chiunque si affidi a un editore anche piccolissimo pretende (e non ha torto...) di sapere chi ha letto la proposta, come è stata valutata, chi farà la Prefazione e magari la Postfazione...

Alla possibilità di rifondare la poesia negli anni Novanta si è lavorato con la fondazione di case editrici, riviste, iniziative di poesia, prima che internet contribuisse (e non demonizzo) a un ulteriore abbassamento globale, causato da una falsa democratizzazione senza vaglio critico, secondo la logica dei Like. Il risultato è che l’insegnante, e non solo, non ha alcuna idea di quanto sia fertile oggi la poesia italiana pur nella sua frammentazione e persino caoticità (che spesso è ricchezza) – a fronte della crisi della prosa, quella sì – nonostante la scarsa attenzione accademica e tanti altri fattori che non è possibile trattare qui.

Il problema è connesso con l’insegnamento, è chiaro: sappiamo quanto sia ma anche quanto sia sempre stato difficile far percepire quella che Salvatore Ritrovato definisce “la differenza della poesia”, cioè della letteratura. In sostanza: dobbiamo banalizzare le tensioni presenti in un testo letterario, riducendo un racconto alla trama, la poesia alla parafrasi, o cercare con ogni mezzo di preservare questa differenza e farla interagire con la praticità della vita quotidiana, a rischio di parlare al vuoto?

Riflettiamo: Enrico Testa parla di «progressiva riduzione del prestigio del discorso letterario, incapace di sincronizzarsi al ritmo vorticoso del mutamento del Costume e del sentire.» Ma non è proprio lo specifico del discorso letterario la sua non sincronicità con il presente? Non è questa che va difesa? Io non credo che esista una via di mezzo, anche considerando che è qui che si vede un buon insegnante. Dobbiamo invece porci una sola domanda: crediamo nella letteratura proprio perché portatrice di una fertile diversità, o alla fine pensiamo davvero che insegniamo per inerzia solo ciò che ci è stato insegnato tanti anni fa in una supposta età dell’oro?

Chiudo con un esempio che è un appello: o si pensa che oggi nessun poeta sia valido, e che magari la poesia non sia utile come insegnamento, o dobbiamo renderci conto che non aggiornarne l’insegnamento sarebbe come se – riportando indietro il calendario di 50 anni esatti – nel 1967 non si fossero ancora insegnati D’Annunzio, Gozzano, Saba, Ungaretti e Montale!

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