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La saggezza degli ubriachi, di Stefano Vitale

Stefano Vitale, La saggezza degli ubriachi, La vita felice, Milano 2017

di Luca Benassi

Alfredo Rienzi, nella prefazione a La saggezza degli ubriachi, formula la seguente domanda: «di quale saggezza sono portatori gli ubriachi? Chi sono costoro e perché ammiccano sulla soglia, se l’autore, come si vedrà, predilige in realtà come strumenti una lucida riflessione e una pensosa rielaborazione delle “cose che accadono”?» La domanda parte dal titolo, «suggestivo e provocatoriamente ossimorico» come annota Rienzi, per introdurre il lettore nella sostanza incandescente del libro; si tratta di una lucida riflessione, di una archeologia del sé, attraverso la quale esplorare e tracciare i percorsi tumultuosi delle vicende umane. Il libro, infatti, assume da subito un carattere universale, esaltato dalla prima persona plurale, da quel ‘noi’ che accoglie il lettore dentro la poesia e lo conduce per mano dentro le parole. Leggere questi versi diventa uno scendere in se stessi, indagarsi, sapendo che «ci muoviamo verso il fondo/ ignari archeologi di noi stessi». La riflessione di Vitale si espande verso gli abissi del deragliamento del senso e della razionalità, come verso la luce cristallina della ragione: «luce sempre più scura/ più dura, luce che/ s’è fatta bianca/ e fredda/ qua dove/ nel triste notturno passo/ la città muta/ mastica l’amaro gusto/ del suo sasso/ e lenta scivola/ in un boato di silenzio.» Questo testo, ricco di contrapposizioni fra luce e oscurità, silenzio e boato, tagliente nella brevità dei versi, racconta del mondo allucinato e misterioso della nostra esistenza, nel quale è possibile scorgere i bagliori della verità. Ecco allora il senso dell’ossimoro del titolo: a una saggezza luminosa si contrappone il buio oscuro dell’ubriachezza, attraverso un’interazione che serve a esplorare la realtà, sia essa cielo o abisso. In questa esplorazione la ragione sembra fare un passo indietro per lasciare spazio al sogno e alla poesia. La vita, sembra dirci Vitale, è un continuo affondare, uno scrutare nel torbido della nostra coscienza, per gettarci senza remore nel naufragio d’una festa d’ubriachi: «la forza del ragionamento/ è poca cosa/ dinanzi al torbidìo/ d’acque salmastre che nascondono/ farfuglianti ombre/ di un delirio di purezza./ La mente intanto resta in solitaria attesa/ nel freddo suo naufragio.» Vitale interroga le farfuglianti ombre, nutre il sospetto verso la convinzione del ragionamento, la precisione dello sguardo, verso un’esigenza implacabile di perfezione; a questa contrappone il precipitare oltre le certezze, affidandosi alle rotture, agli squarci d’ombra, alle macchie sui vestiti, agli sbagli («siamo fatti della stessa materia dei nostri sbagli»). Il poeta si rivolge all’incertezza ondivaga del suono, come si legge nell’ultima sezione del libro Moments Musicaux, oppure allo spostamento del punto di osservazione, come nelle sezioni Punti di vista e Dal terrazzo, dove Vitale sembra ridurre l’angolo di visuale al microcosmo domestico e naturale a un tempo della propria casa, per farne il correlativo oggettivo delle inquietudini del vivere umano. Del resto, questa è una poesia che coltiva il dubbio, spesso portato a oltranza fino al paradosso: «non c’è certezza definita: anche gli specchi possono sbagliare/ restituire ombre disfatte/ pensieri capovolti, cenere dimenticata/ nella vecchia conchiglia riciclata», dove ciò che rimane è «l’immagine di noi che non ci è data/ velo che avvolge il corpo/ reso invisibile ai passanti indifferenti.» Nel dubbio e nell’imperfezione si agita la verità, che si contrappone a ciò che siamo costretti a sembrare nello spettacolo rutilante della modernità.

La saggezza degli ubriachi può essere letto come un lungo viaggio dentro la coscienza di sé e il suo smascheramento, dentro il muoversi della luce nelle ombre dell’oscurità, dentro il tempo. A volte si ha l’impressione di un ambiente claustrofobico, di un incaglio del vivere dentro le dinamiche di una razionalità che imbriglia invece che aiutare («siamo in trappola/ su questo dente di granito/ tra un respiro e una bestemmia»). La poesia sembra regalare improvvisi squarci, ci obbliga a cercare dentro i residui, fra i vetri rotti dei bicchieri e il vino versato. In questo continuo cercare, i versi di Vitale offrono il senso del ritorno, della circolarità del vivere, della morte: «andiamo/ passo dopo passo/ all’indietro/ verso la prima e ultima luce/ epifania del ritiro della vita/ che nasce e si consuma.» In questo viaggio non contano i successi, le misure di un esistere cosiddetto civile che in una prospettiva destinale sembrano sfumare nell’ombra; conta invece l’essenza, chiudere lo spazio alla rabbia, agli abbagli e cercare la luce dentro noi stessi, come un piccola sorgente di poesia: «eppure non serve altro bagaglio/ nell’ultimo passaggio/ di questo nostro prossimo viaggio./ Ci guida il canto/ piccola ostinata intima luce/ che riposa nel tabernacolo/ delle nostre viscere.» (Luca Benassi)

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