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Roberto Rossi Precerutti, Fatti di Caravaggio, Nino Aragno Editore, Torino, 2016, pp. 81, Euro 12,00

Roberto Rossi Precerutti, Fatti di Caravaggio, Nino Aragno Editore, Torino, 2016, pp. 81, Euro 12,00

Titolo asciutto quello dell’ultimo libro di Roberto Rossi Precerutti, in cui per “fatti” noi intendiamo insieme i fatti dell’esistenza e i fatti dell’arte (i manu-fatti) del Gran Lombardo. Fratello del di poco precedente Rimarrà El Greco (Crocetti, 2015) per ragioni di costruzione, di prosodia e, ovviamente, per amore della grande pittura occidentale, anche questo più recente volume ci si presenta come un sapiente dosatissimo prosimetro, con una leggera prevalenza – anche qui – dei testi in prosa sui componimenti in versi. Un prosimetro, s’intende, in cui anche le “prose” rivelano a loro a volta misuratissimi metri, e metri in cui sarebbero, volendo, rintracciabili (ri- o de-costruibili) settenari o novenari o endecasillabi o alessandrini e, insomma, tutta la sapienza metrica così evidente in ogni libro di questo poeta.

Ora, per un autore come il nostro porsi di fronte alle opere del Merisi (come di fronte ai dipinti di El Greco) e tentare di dirne (meglio: di dire con loro) non può in alcun modo significare intraprendere la via descrittiva (illustrativa) delle opere d’arte in questione e neppure può significare collocarsi in una posizione agonistica nei loro confronti (Poesia in gara con Pittura). Soltanto la condizione estatico-evocativa può interessare la poesia di Rossi Precerutti e disporla al dettato; ed è da questo status che si fanno strada i versi ed i poèmes en prose di questo “Caravaggio”, quasi ogni dipinto venisse ripresentato dalla memoria insieme abbagliata e visionaria (visionaria proprio in quanto abbagliata), ora, ad occhi fisicamente chiusi, a restituire le forme delle ombre, la pura sostanza dei sogni (a conferma di questo, ci si potrebbe chiedere il senso dei titoli delle opere caravaggesche riportati in calce a molti componimenti, quasi sintetica nota a piè di pagina; escluso il rimando esplicativo per la comprensione del testo che “riguarda” il singolo dipinto, esclusa la funzione di parziale cataloghetto della produzione caravaggesca – “Che cos’è questo, un catalogo delle opere del Merisi?”, domanderebbe un solerte messaggero lukàcsiano…”(p.35) –, il titoletto vale invece come designazione puramente referenziale del dipinto, in contrasto aperto con la lingua tesa al massimo della sua forza connotativa del testo poetico che lo precede). L’indole di questa Poesia si conferma quindi in un appassionato ma anche turbatissimo “exercice d’admiration” dell’arte caravaggesca da parte di un autore già per sua natura predisposto ai fortissimi chiaroscuri del proprio universo interiore, che nei drammatici chiaroscuri del pittore trovano una loro misteriosa ed insieme accogliente consonanza.

Qua e là, nel libro, qualche furtiva evocazione di maestri e dèi di un altro Pantheon (Śankara, Rudrā) che straniano con la loro lontananza la collocazione barocca dei testi e la costringono ad accostamenti forti con altre metafisiche, per le quali l’autore s’immagina debba provare qualcosa di più di un generico interesse culturale (come confermato da un altro suo denso volumetto, Vinse molta bellezza, 2015); e – sul “fronte occidentale” – più di un’invocazione a poeti amati e frequentati: Rainer, Osip, Georg, Boris, Alessandro (Parronchi), Charles, Stéphane, Camillo (Pennati)...

Poesia felicemente ardua, quella dei Fatti, che richiederà un lettore disposto a tempi di lettura lentissimi ed intensivi, ad una concentrazione degna di uno yogin, senza timori per scalate e precipizi, per anabasi e catabasi stilistiche (ma anche ben corporali) che il nostro Tempo (un tempo di silenziosa vergogna?) per sua natura per lo più sdegna e rifugge.

Daniele Gorret

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