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Mauro Ferrari, Per la resistenza di Alberto Rizzi

Quando si arriva alla poesia di Alberto Rizzi, il che, stante la situazione della poesia italica accade quasi sempre per caso, si ha l’impressione di essere violentemente catapultati in un altro mondo: un mondo di valori umani, senza dubbio, ché Rizzi da anni produce poesia vera e onesta in totale isolamento culturale, ed è poesia che riflette una visione antagonista da qualunque angolo la si consideri; ma anche un mondo poetico in sé, perché questa poesia ha una corrispondente originalità di stile, raggiunta con letture, riflessioni personali, e soprattutto scelte coraggiose ai limiti dell’idiosincrasia ma che creano un impasto espressivo del tutto originale e personalissimo.

Avendo pubblicato, agli albori di puntoacapo, uno splendido Poesie incitanti all’odio sociale (2008), avendo seguito un po’ tutta la variegata e sparsa produzione del poeta rovigino, mi trovo adesso per le mani l’autoprodotto Achtung banditen (Poesie per le nuove resistenze), che Rizzi definisce il seguito ideale della citata raccolta: mi pare evidente che ci si trovi di fronte a uno dei non comuni casi di poeta non solo sottovalutato, ma che possiede anche virtù letterarie che potrebbero innervare non poco la poesia italiana così ovviamente afflitta da due mali in stadio terminale: l’iperletterarietà di tanti poeti laureati e il l’ipoletterarietà del minimalismo – nascendo la prima non dalle (indispensabili) competenze che permettono una matura consapevolezza artistica, ma da una visione asfittica e conchiusa del mestiere di poeta, avulsa dalla vita, e nascendo la seconda dalla fallace idea che chiunque possa fare poesia partendo dall’onestà di un racconto in versi, meglio se “leggibile” – ipopoesia, insomma, il contrario di ciò che hanno fatto i grandi.

Ebbene, Rizzi scrive del nostro mondo, da un punto di vista “militante” (parola dimenticata), che non tutti magari possono condividere, ma che almeno dice, afferma, grida a volte, assumendosi responsabilità umane, civile e poetiche, cioè culturali, visto che poi è di cultura (non-cultura) che sta morendo il nostro Paese.

Il punto di vista è quello di una contestazione globale che parte da un’invettiva che coinvolge non solo il Potere (quell’ectoplasma contro cui tutti sono pronti a scagliarsi), ma le sue manifestazioni concrete.

Radici di cespugli

che foste e più non siete

io v’estirpo

con dólcegèsto privo d’ogni odio

Così s’avrà da fare

quando saremo al sangue

(p. 9)

così si apre la raccolta, con una poesia che è tutta proiettata verso un futuro redento in cui “verranno bambini a porci domande” (p. 10).

Rizzi attacca direttamente sia di qua che di là dal muro perché la sua è una critica che non risparmia i cosiddetti poteri forti (la politica, le banche, le istituzioni), il “popolo” inteso nell’accezione più negativa (“Povera gente rincoglionita e opaca”, p. 1), quella massa che da quando esiste la democrazia è stata vista da destra e da sinistra, con tutti i distinguo, come pericolosa, ipocrita e/o inerte (dallo Shakespeare di Coriolanus ad Alfieri a Leopardi, da Tocqueville a Carlyle, da Musil a Eliot), fatta salva la quota di sognatori più o meno pratici che lì vedevano le risorse sane per un possibile risveglio (Marx e più di lui certo pensiero progressista non troppo allineato: Morris, Orwell, Pasolini...). Rizzi sa bene quanto il “popolo” sia a sua volta vittima, ma una vittima ben disposta a farsi addomesticare (“’st’infelici li compri sempre col prosciutto”, p. 12) di modo che resta solo una sparuta minoranza di non omologati (“la minoranza sana di una qualùnque città”, p. 39) che può portare avanti la critica e la lotta con scelte coraggiose e spietate:

Giórnoverrà

un giorno di dolore

in cui ci sveglieremo dalla commedia vile

comprenderemo nell’oscurità d’un’alba

che non si può aiutare

salvare

chi non lo vuole

Che la zavorra è zavorra

e va lasciata andare

(p. 15)

O anche:

scoprir dovrai il nervo più scoperto

il ganglio ipersensibile

il vero portatore di potere

(p. 26)

Paradossalmente, Rizzi afferma che la lotta non è solo giusta, ma nasce dal desiderio pietoso di resistere al male e di proteggere valori umani fondamentali: si legga con attenzione la splendida Quasi un’introduzione, quasi un congedo (p. 14). Ma, soprattutto, Rizzi sa che la lotta è non solo minoritaria, ma probabilmente relegata al denuncia, al gesto esemplare ed eroico, alla testimonianza pervicace e testarda, come prova anche il tono retorico e l’atteggiamento titanico di tanta di questa invettiva: “Non cercheremo perciò oltre / di convincere d’errore il gretto subumano” (p. 22); e più oltre: “Non ne cercheremo il consenso / l’ebete plauso”.

Lo stile di Rizzi, che può sconcertare pure in epoca di post/avanguardia, è una accurata mesci danza di registro colto e iperpopolare, di dialetto e lingua, calati in una versificazione che si appoggia sul verso libero del parlato, o meglio del recitato (con enfasi, in genere), e in cui fa spesso capolino – ben nascosta dal tono frequentemente truculento – una certa dose di divertita ironia:

Te lo ripeto

e lo ripeto ancora

non devi odiare

nel mentre che tu agisci

solo comprendere e colpire

con la serenità di un Buddha

se il tempo è distruggere

solo comprendere e donare

con la serenità di un Buddha

se il tempo è fertile a costrurre

comprendere l’avversario

comporta il rischio di farne parte

(p. 28)

Quella di Rizzi è una poesia forte, che parte da un assunto disperato che si percepisce in ogni verso, al di sotto dell’apparente ottimismo di chi vuole comunque resistere. E, forse, questa lotta è facilmente comprensibile da ogni vero poeta quando pensa ai miseri destini della poesia (e quindi della cultura, del vivere civile e del pensarsi comunità degli animi), per cui Rizzi ci appare in tutta evidenza come una voce oggi indispensabile.

https://www.facebook.com/alberto.rizzi.35

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