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Filippo Davoli, Poesie (1986-2016), intr. di M. Morasso, Transeuropa, Massa 2018

«La vita testimoniamola dentro la vita, / non starci troppo a pensare, mi dico.» (Davoli)



Non so quante “linee” siano state immaginate per interpretare in maniera esauriente il panorama della poesia del Novecento: linee poetiche, estetiche, geografiche, sociali ecc. Ma se ve n’è una che è rimasta nell’ombra, e spero che lo resti a lungo perché ha un valore più intimo-esistenziale che critico-letterario, è quello dei poeti che hanno trovato nella vita la linea della loro poesia. Fu un’espressione che Giorgio Caproni buttò quasi en passant durante un’intervista, e quando la scoprii, ai tempi universitari, non ebbi il tempo di scriverla che finì per piantarsi nella mia testa come un cippo che segnala l’altezza di una montagna. Oggi, penso che la maggior parte dei poeti, e soprattutto dei migliori, abbiano seguito proprio questa linea, non solo per sottrarsi agli inutili giochetti degli -ismi che affollano i manuali scolastici e sono sempre la tentazione dei professori nelle loro monografie scritte in vista di un concorso universitario, ma anche perché il valore di una poesia non si può pesare in altro modo. Tale questione diventa ancora più importante per chi voglia comprendere i poeti nati negli anni Sessanta, esorditi nei Novanta o giù di lì, che hanno ripreso a tessere i loro versi dialogando con gli ultimi maestri del Novecento (da Luzi a Zanzotto), e cercando di uscire dall’impasse cui aveva sospinto i poeti, a gruppi o in solitudine, dopo la contestazione, fra neo-orfismo e tardo-minimalismo. Una generazione nel suo complesso sottovalutata da chi si occupa di poesia, ostentatamente trascurata dalle antologie, relegata in qualche nebbioso limbo editoriale, ma che non ha mai smesso di cercare la terza via sopra citata e alla fine l’ha trovata in vie traverse e laterali, ma niente affatto secondarie (si pensi, soltanto per fare un esempio, all’uso del dialetto in alcune raccolte di Fabio Franzin e di Edoardo Zuccato, che non esclude però, in altre raccolte, quello della lingua) nella prospettiva di un canone plurale, centrifugo, rizomatico, ammesso che di “canone” si possa ancora parlare. Detto ciò a mo’ di cappello introduttivo, vengo all’autoantologia di Poesie (1986-2016) di Filippo Davoli, uscita per Transeuropa di Massa, nel 2018, con la prefazione di Massimo Morasso.

Di Davoli ho molte raccolte, qualcosa mi manca: il presente volumetto è solo un piccolo autoritratto dell’autore, un centinaio di pagine in cui possiamo leggere le poesie più significative di Davoli, con due brevi soluzioni di continuità: le belle note scritte da Franco Loi e da Massimo Raffaeli, rispettivamente per Alla luce della luce, 1996, e La luce, a volte, 2016, che suggeriscono al lettore l’ipotesi di un percorso da seguire, e, pur da punti di vista lontani, ci invitano a cogliere la ragione per cui questo libro fatto di altri libri è importante. E la ragione fondamentale è, a mio modo di vedere, nel fatto che esso ci consegna una sorta di resoconto, per sommi capi, del percorso già svolto da un autore che ha fatto della sua poesia un punto d’incontro con la vita, un dialogo, un appoggio necessario per trovare ancora un nuovo slancio verso (e oltre) la stessa vita: «“La scrittura… che fascino…” / e invece / altro non era / che varcare la soglia, intromettersi / in un retrobottega» (p. 22).

La parola di Davoli – ed è questa forse la più utile premessa per comprendere non la sua poesia, ma anche quella di tanti altri suoi coetanei – non cade mai entro le mura che cingono la letteratura e la difendono dal mondo, né si rivolta contro se stessa per assecondare certe dinamiche interne al sistema letterario all’insegna di quella dialettica tradizione/innovazione variamente declinata nel corso dei secoli, ma «costeggia» e «apre» (così in padano piceno, p. 61) la vita del poeta, non una o più sue identità perdute, la testimonia, vi riflette per misurare la sua capacità di aprire la porta all’esistente (ecco il senso di quella «soglia» da varcare) e accoglierlo con umiltà (in un «retrobottega», non in una sala scintillante), onde tradurre quel che parrà più urgente nei limiti di una parola che non ha la pretesa di esigere l’assoluto, bensì di pesare quanto di fragile e precario è intrinseco alla nostra condizione; e senza tuttavia esiliare parole come “eterno”; al contrario, utilizzandole con la coscienza della loro incommensurabilità. Escluso, perciò, ogni atteggiarsi neo-orfico o post-minimalista (semmai si dovrebbe parlare di minimalismo critico, come nella poesia Notizia: «E quando scriverò che fanno / gli altri? non rispondermi / le solite cose la piazza il bar / quel riottoso ciarlare di bottega // fammi sapere che s’è aperto un varco / stabilito un contatto / che un guscio s’è dischiuso. / Alta la voce e poca / e vera», p. 30, c.d.a.), alla poesia tocca cogliere l’evento unico della vita e, insieme, l’ora esatta di ogni evento (compreso quello, ineluttabile, che alla fine ci attende): è un invito a guardare oltre il proprio ombelico, non per una vana ansia metafisica da soddisfare, ma perché il mistero è come una cosa intorno a cui si gira per tutto il giorno e si conclude in domande che rischiano di morire appena si ha l’alibi di distrarsi di occupazioni quotidiane, riempiendo la vita di “cose-da-fare”. Al contrario, la poesia di Davoli non è tanto piena di cose, quanto di dettagli; e nei dettagli – si sa – è più facile incontrare Dio, o almeno ascoltarne un brusio, che è poi un silenzio eguale e impenetrabile, e immaginare che in fondo la partita non finisca in questa vita. E non sono poche le poesie che disarmano il lettore abituato forse a seguire il piano inclinato di una scrittura che ambisce al suo grado zero, e invece s’impenna all’ultimo istante, in una riflessione, in una massima che azzarda un passo più lungo per sollevare una domanda e, magari, agguantare il senso: mi viene in mente San Sebastiano, che si dipana di dettaglio in dettaglio, dal ricordo dei cani a un tresette, fino alla stretta finale («Ma ho fiducia nel gioco / che rimane / ben oltre la partita», p. 41), e quindi a Monolocale e a Biblioteca, La polvere, L’Ottanta fu una stagione di motorini, che delineano in maniera sempre più evidente la sovrapposizione dei piani, fra realtà e allegoria, come avviene per esempio in Vicolo delle Scuole 4:


E il pavimento lo facciamo in cotto

come le case antiche e nel cuore

dell’ingresso un rosone. Allarghiamo la porta

del soggiorno, facciamo

dell’atrio uno stanzone

per le giornate che saremo in molti.

Sarà una bella casa, accogliente,

e sarà dolce vedere la gente

che passa sulla strada

con la vita a ridosso delle sporte.


Io resterò residente

a quest’ultimo piano condominiale

così a un passo dal cielo

frammisto a un silenzio insopprimibile

attutito dal mondo.

Poi scenderò tra le persone normali

e mi parrà eccezionale

aprire e chiudere gli scuri per guardare

l’alba e il tramonto degli uomini

che come me devono vivere la vita.


Entrando dunque nei dettagli, sfogliando questo libro che sembra avere una semplice pretesa – quello di proporsi esattamente come un libro di “poesie”, con tutto ciò che di anacronistico oggi ha postularne l’esistenza –, non faremo in tempo a fermare quelli più interessanti (a cominciare dal piano linguistico, con l’uso, per esempio, del gerundio in funzione non solo sintattica, al limite di forzature semantiche, ma anche fonetica, di amplificazione del suono, grazie all’incontro della nasale e della dentale sonora), che altri rischieranno di sfuggire, fino a ricomporsi in una sorta di tavolozza dai colori tenui e delicati, pronta a evaporare come in una notte che dilegua nell’alba, in un’ora che incanta non solo per la «assenza / totale di rumori e di coscienza» (p. 71), ma perché avviene una trasfigurazione proprio in chi guarda:


Io sto nell’alba come sto nella vita:

fermo su me in attesa del giorno,

guardando scorrere un ruscello qualunque

sotto di me, portarsi via le illusioni. […]


Io so che all’alba di conosce l’aria

che approssima il mattino e i suoi colori.

Se qui l’aspetto dovrà giungere, credo.

Oppure, se non giunge, aspetterò. […]


Tutto si muove, intorno a me nell’alba.

E tutto tristemente piega e cade.

Se qualcuno gridasse, almeno potrei

da qui lanciare un urlo di risposta,


o una mano protendere, tentando

un abbraccio che superi il saluto,

una presa che regga. Da qui potrei

dare segni di vita, dimostrare


almeno a me che qualche cosa tiene.


(pp. 71-73)


Non la poesia, ma le poesie sono il contenuto di questo libro di Davoli; e ciascuna di esse parla di qualcosa che le accese una volta, per sempre, e torna a illuminarsi nella misura pacata di un endecasillabo che ora si distende, superando i limiti sillabici, ora si contrae.

È ormai chiaro che “luce” è una parola chiave della poesia di Davoli, così come lo è per altri poeti, perché scolpisce un mondo in cui i corpi non hanno valore anatomico in quanto tale, ma proprio in quanto riescono a uscire dal buio, e ad apparire alla luce che dà forma e profondità alle cose, le trasforma in dettagli. Leggiamo in Gli incendi, una sequenza ispirata alle varie voci di ragazzi che hanno affrontato lo sradicamento e la perdita di identità:


La vita non ha nulla di eccezionale

me la coltivo, dicevo, come un piccolo

orto discreto. Illuminazioni del dire

lo renderanno, ripetevo, unico.


Ma il tuo Nome ritorna in altri nomi

quando meno ti aspetto. Evocarti

è il tuo sangue che ancora circola in me.

Darti voce è incrociarti nelle cose.


(p. 83)


La luce, dunque, come anima o come segnale di un divino? Negli anni la poesia di Davoli, nel suo essere vera poesia di ricerca (nel senso leopardiano: cioè di domanda di senso), fissa con attenzione i pertugi in cui balugina la presenza del Dio nascosto, i meandri in cui annida qualcosa che porta lo sguardo oltre i confini della nostra esistenza, soprattutto dopo la morte della madre, rivissuta con le parole che permettono di sopravvivere al dolore privato (si veda la bellissima Come all’origine dell’aria). Qualcosa di simile a una inquietudine metafisica che però non distoglie il poeta dalla sua inchiesta terrena che si realizza, soprattutto nelle ultime raccolte (I destini partecipati, 2013, e La luce, a volte, 2016), in una maturità stilistica che non si scompagna dall’intelligenza dello «sguardo», e quindi del «cuore», anzi si addentra con un disincanto determinato, mai feroce, che stempera i versi, sempre nitidi e limpidi, nella fonte che da sempre li ispira, che è appunto la grazia della vita.


Le escoriazioni non bastano, bisogna ferirsi,

andare a fondo del sangue, sgorgare da dentro

a una vita diversa, di lampi lunghi,

questo volevi dirmi. Cerco è così.

Però non dimenticare che siamo uomini,

non fare di quella discesa

un eroismo inutile. Abbi a mente il tuo cuore,

ricorda da dove vieni e dove vai,

mentre cammini a fianco di tutti gli altri.


(p. 99)


Sottolineo grazia (cui lo stesso Morasso da risalto nella sua prefazione, sin dal titolo), ora che sto per concludere questo breve excursus nella poesia di Davoli, per rafforzare l’invito alla lettura e alla riconsiderazione di un secolo – il Novecento – che ha solo finto di essere finito, o forse sopravvive nelle parole che a lungo sono state tenute in quarantena da decenni di risse ideologiche e post-ideologiche. Si tratta di una grazia che, come nel caso di quella elaborata dai Padri della Chiesa che solleva il peccatore a uno stato di comunione con Dio, un uomo non se la può dare: o c’è o non c’è; a un certo punto, o la si scopre o la si perde. È la grazia che permette al poeta di rivolgersi ancora alla luna per chiedergli di parlare, di pronunciarsi, di accennare una risposta (come in questa poesia, che sembra sgocciolare da qualche verso leopardiano: «Certe volte mi fermo a parlare con la luna. / Non le dedico versi, le sussurro / nemmeno parole, le dico sguardi che girano il mondo / e lei si volta, mi mette a parte del segreto / che è la sua vita dove non si vede», p. 108), e si abbandona a un tono che lievita davanti al silenzio della stessa luna fino a cogliere il suo segreto». Lo stesso vale per il poeta, che non segue una ricetta per scrivere una poesia, ma sa che qualcosa può guidarlo fino al cuore (che non significa ovviamente mirare sempre al centro) di quello che scrive, coglierne il senso o il non-senso, e sperare che il lettore comprenda, e lo perdoni (così come chiedeva Petrarca): e potrebbe essere, questo, «la sua vita dove non si vede».


Salvatore Ritrovato

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