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Maria Pia Quintavalla, Purgatoriale

Stamane, mi sono svegliata già stanca e un po’ agitata come da un sonno duro e senza pace, e avrei voluto parlare con te, madre: mi sento così strana senza il nostro telefono senza fili che quei fili ho cercato amorosi nel buio, per un po’ senza trovarli. Intanto risentivo la tua bella voce sensuosa avvolgermi, un po’ solare, ma l’aria pareva potesse smarrire quei tesori se non li afferravo presto, come quel tuo ondeggiare lieve. Eravamo sole, e questa immagine mi ha dato la carica nervosa, senza parole ancora, che per giorni mi avrebbe lasciata in tormento. Allora ho sentito che non ci sarebbe stata un’altra possibilità, se non ti avessi presa così di forza, e con la mia attenzione costretta a sedere qui, a portata di orecchio. C’eri tu e interamente, come figura che lo spazio occupato da te indicava, e ti ho fatto cenno di posare dove volevi. Nessuna immaginazione sul tuo corpo mi era di ostacolo, né mi indicava una tua necessità; anzi pensavo di non darti costrizione alcuna per non spaventarti, o umiliare coi legami del mondo. Così ho sentito che ti spostavi liberamente e che potevo farti dei cenni, circondarmi della tua aria, perché è quanto vado cercando di te, un luogo per accoglierti. Niente che io conosca così bene ma quanto tu, silenziosa al mio fianco, già conosci. Ordina pure che ci lascino tranquille, avevo voglia di rassicurarti, in modo che quel silenzio divenisse solido, protettivo per noi; così cominciavo a sentirti presente. Movimenti finissimi e celestiali, quasi primi moti della vita nel grembo, prima del nascere; così ti avevo vista respirare lottare con soavità tenace, prima di staccarti dal corpo, agli ultimi: stessa grazia e luce interna potevano ora espandersi riverberare, io non temevo. Eravamo libere e insieme sole, parlammo? Non so, come non sento alone di un altro tempo che si sposti da qui, l’eterno dove sei rivolta, i due volti guardando nello stesso punto senza fissarsi, piuttosto volti all’unisono. E dove era caduta la rondine più alta, per forare spostandolo, il muro a me incompiuto, nel tremore di una singola canzone ci muoveva, l’aria forse ti cercava. Se nessuna foglia ti chiamava, ti sapevo accanto sulla soglia: eri tu che cercavi un varco, avevi bisogno di alitare tra noi. La tua sottigliezza esile e nota, il tuo dimagramento continuo fino a farti tornare ad essere aria, aria che respira e fa riposare, ti restituivano a noi, dalla tua assenza cacciati. Quel bianco, breve sconfinato verso il cielo eri tu a carpirlo, ma i rami-mani e il calore vano, quel tocco della schiena tornata a rivivere all’altezza del tronco, là tu per noi, più viva dei viventi ti faceva. Molti sogni non lottavano più, senza di noi tu liberata, già i tuoi passi leggeri cadevano come tocchi diritti e battiti per noi due, sole. Impercettibili respiravamo fra il bianco e il verde, sottili spinte e appese, dapprima nello spirito leggere, ma non disgiunte nel volo ancestrale. Tu eri là, e me cercavi. Tu, quei rami spessi, qua nei colori compensati dal sentire erano per tocchi e suoni, dal silenzio ribaciati! dolce l’aria che li conteneva, dolce carta come la tua lingua stanca; del corpo andavi cogliendo la tua risurrezione. Resurrexit. E, mangiate e bevetene, era lo scopo. Ma il volto, il volo interrotto ne parlava. Tu beata e fraterna a noi, dall’eterno non dissuasa, disavvezza ai colori, ancora e semplice abitavi quel dondolio improvviso, e mai aperto al cadere. Incalcolabili fili di una vista squisita ne stormivi: le ripartenze delle rondini, e tu ignara, senza più tempo atteso né alfabeti ragnatela, nei sogni del mio sonno mi cercavi - quel pigolare chiaro di pensiero e anima incantavi. Nostra signora dei neo nati - udito breve, non sparire singola e comune. Occhiuta al nostro rombo silenziosa tu, e parlantissima persona. Contigua svetta, sola ne resti (e guida). Scena della caverna muta Quante altre volte e per quanto tempo, saresti rimasta in visita da me, o saresti mai tornata non era dato di sapere; dunque intendevo farti dei cenni e lasciare che le due anime conversassero subito, liberamente. Per prima cosa mi accorsi che la tua titubanza non era incerta ma leggera, e fatta di orecchio: avremmo parlato, se lo potevamo, solo per cenni e suoni. Che tu emanavi musica, ricordo bene, è stata la prima immagine di te avuta al mondo. Di questa musica avremmo spostato insieme le altezze la durata, la curva della melodia, forse anche un canto era possibile. Mi fermai allora, tesi l’orecchio più allenato, e provai - intorno non colori non forme, il niente. Questo incontrarci faceva un gran bene a entrambe, ma al tempo stesso ne ero intimidita, per la sensazione mista che in quell’attesa potessimo dissolverci, e in un baleno scordarci del luogo, e tempo nuovi. Cosa sarebbe accaduto di lì a poco, se non avessi fatto qualcosa come l’antico prenderti per mano, un afferrarti al volo come un tempo, così mi alzai. Forai con le mani quel vuoto spesso più dell’aria, presi coraggio dall’essere già deste e feci un gesto, eccomi non temere, andiamo più dentro o più lontano, abbandoniamo l’impenetrabile e l’immobilità - mute. Per un istante oscillammo, insieme; tu volevi una traccia, io vedevo ancora dentro agli occhi cielo e muri, case alberi, città spazi distanze dove i corpi diventano piccoli e si dividono in intoccabili. Certa sabbia negli occhi, solida stanchezza a cerchi ci avvisava che per altro poco, o per molto, del tempo avremmo dovuto farne a meno, e lì sostare. Che per gli occhi l’illusione beata sarebbe tornata ma più tardi; non sapendo né il giorno né l’ora, l’intervallo potendo durare a lungo o per sempre, come il morire. I tuoi occhi ora guidavano e vagammo, per un po’ in silenzio. Dovevamo ricordarci ancora molto altro, lo si capiva ed era già zavorra, ostacolo al sentire daccapo altre cose, senza le cose stesse. Credo tu volessi ora guidarmi, ora essere guidata; i passi dei nostri affetti, ieri affanni, non sgrumati, ma un poco eterni invincibili si presentavano quali ali insaziate pronte - ad afferrare vita, quella passata divenuta insuperata, con rami antichi e verso terra, un poco ciechi. Scansandoli, ti riparavi la vista, un turbamento che era intriso di aria vecchia, miasmatica: da quella sagoma di morte ne fuggimmo, tirandoci come da un'altra parte dove il respiro più non si stancava, ma chiedeva tregua. Ci abituavamo allo spostamento dell’aria, e con il respiro spingendocene fuori all’aperto, di nuovo lo scartammo. Forse una pioggia fine cancellava, e mi avrebbe condotta a quel luogo che somigliava allo starti davanti: occhi negli occhi un tempo, mano nella mano o ginocchia su ginocchia, ma neppure questo era più possibile. Un purgatorio era il luogo cui facevo somigliare questa nostra aria piena di bianco, in una quasi pioggia trasmutata. La tua vista mi guidò e ci guardava, io non ti vedevo; sentivo come un respiro affettuoso e pieno di domande farsi spinta, cerchio lontano e assai leggero. Era mia madre quella beatitudine di piccolo rosa e piccolo giallo che forava il bianco dell’aria, consentendoci di non essere più sole né fasciate, ma circonfuse, quasi battezzate insieme? E cosa mi avresti detto, ti avrei seguita, se tu davvero mi avessi fatto cenno. Com’era stata l’esistenza di quelle come noi respinte, sulla linea di partenza senza sapere, né saltare dentro al cerchio della rondine, né divenire della vita amanti. Avevi voluto salutarmi all’ultimo, con le promesse di una futura nostalgia. “Sono tante le cose che non ti ho mai detto “ era l’addio recitato, ed io tenevo in corpo quella grazia a tratti; ma il miracolo, rimasta sola, non si ripeteva. Resurrexit? Mi chiamasti, e ad un tuo cenno mi coprii intensamente: avevo freddo ma non fretta, di riaprire gli occhi: mi sapevo nuda, e forse tremavo nel pensiero dell’incontro. Figlia era il nome la risposta, figlio vermiglio il gioco antico e nuovo: creare catene luminose di domande incandescenti per la mente ma soavi - per il cuore in ricerca come un cacciatore. Lo avrei saputo, tu vibravi e attendevi. Ancora un’onda poi un’altra, a scostare il velo e renderti parola, oh mio presente, mio bel nome. Ancora era la vista un po’ turbata a rendere giustizia della nostra verità, ma il silenzio rischiava di ricondurti allo stato del corpo intero, quello martoriato ultimo che non potevi più condividere, e nel quale soffrendo e offrendoti ti involasti, pura. Disparisti all’improvviso, nel respiro e nella forma; già famelico il tempo proseguiva il suo giro, nella materia smangiata e chiusa ardeva tornare l’inorganico di prima. Né la voce unita dall’estremo eterno né le mani, quelle piccole e segrete, mi avrebbero più fatto cenno. Né reti di memoria, le sue immagini ultime che si libravano nell’aria perché chiare, struggenti, troppo immacolate. Incalcolabili fili della vista e dell’udito mi tenevano soggiogata alle ultime tue immagini terrene, e non alle prossime acquose dei senza corpo, cui non avevo accesso. Di nuovo la paura fitta di buio, orrore senza zona alcuna, di teste e voci. Nessuno ci aiutò a parlare, infieriva l’inverno che dalle pieghe ancestrali mai lavate del tempo prevaleva, l’antico taglio che ci aveva ammutolite e rese intonse. Solo la morte purifica. Solo la morte ha potere, tu la compisti integra e bella a redenzione del tuo vivere appartata. Mai ti voltasti se non nell’attimo in cui baluginasti di me una donna, e divenute madri, mi chiamasti per nome. Che di piumaggio pensiero - essa parla. Sapevamo poi evitare quello sgradinare lento inesorabile, di mani avide che menano all’indietro, in pensieri in ricordi che chiedono conto che tirano somme, all’indietro sempre più indietro, fino al giudizio sulla vita trascorsa? Parole non risuonate nel petto ma chiuse, come tombe sazie di vacuità. Tutto quel rumore dei vivi poteva sfinirci, e da lì cacciarci. Per mano era il compito, per mano il potere di levitare e scendere più dentro, più lontano dal tempo noto, ora disabitato. Avevo paura, la paura prima della vita noi ci perdessimo, per il troppo volere toccarsi della mente. Qualcosa mi indicava che anche mia madre lo temeva, e che non l’avrebbe abbandonata facilmente, quel demone. Zittirle tutte quelle spemi e rimorsi, fitte ombre di invidia e putrida ira – gesti che mai avrebbero cessato di comandare sui cuori. Abbandonarle fingendo di farsene abbandonare, e per sempre legarle al carro della morte stessa, e lentamente, nella vista rovinosamente e nel deserto cuore spingerle verso il mare della notte: era il pensiero dal fiato corto circonciso. Spesso il tuo sguardo si arrotolava e poi saliva, cercava di vedere. Più su, già in alto più lontano, così ti avevo veduta agli ultimi,i prima della morte, quel tuo salire cercando pioli cui attaccarti come una bambina: era il commosso ammettere che eri sola. Quando arricciavi gli occhi alla ricerca di qualcosa, veniva a me spontaneo guidarti e dire, Stai tranquilla, ci sono, e possiamo ritrovarci. Ancora. Ma ora e qui, in questo libero vagare alla ricerca di spazio e tempo diversamente esistititi, entro la corolla dell’essere all’aperto, cui avevamo deciso di votarci, per intero. Così provammo. A parlarci e toccarci col pensiero e desiderio tutto, a lasciare sprigionare gli incontri che sarebbero fluiti. Come prima apparizione, la tegola del mondo ci apparve dura e sinistra piombare contro noi, ci riparammo. Erano voci ancora, e moltitudini furenti di pensieri in forma animata, che riempivano la stanza. Tu guardavi senza avere l’aria di vedere nulla, giacevi ti libravi eri pura musica di spazio, nulla più poteva toccarci come prima, sparimmo alla loro vista, mute. Più sotto non vedute, avremmo ricostruito le piume dell’essere all’aperto, la forte libertà che veniva dall’essere fuori dal tempo smemorato, non intricato dall’inganno, in metamorfosi soppresse. Ora ed ancora, libera nos e respira: inspira omnia pensiero mundi, omnia pensata mundi ritornava più altera e allegra, giacché conosciuta. Ti ho salvata, cantava la figlia perdida e ritrovata, festeggiata; e per altri versi si illudeva morire e non più rinascere. Quante quiete canzoni, quante e quiete. Ma l’osservatorio era stato svuotato di pensieri, e nulla più saliva a riempirlo. Un fondo di allarme sibilo batteva sotto quel tempo, dove ogni fatto e idea, sentire era deforme per l’avidità del mondo. Dove non eravamo più state né ognuna, amen.

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