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Antonio Tricomi L’inerzia al mattino (settembre 2016 – agosto 2017)

Vita trascorsa, in punta di penna

Non c’è niente di naturale.

È uno sbavo nel rammendo,

il nascere, appena.

È un inciampo del corsivo,

perdere fiato, battito, luce.

Rallegrarsi non serve

che felice schiumi sudore,

il corpo, dilatando i tessuti.

Consolarsi non vale

che ghiacci una smorfia,

sbecchi un ordito,

il tempo di ognuno, sul raso.

La veglia ha scolpito l’assenza:

non è subito discernimento

ma dolore quand’è schiava energia,

meccanico schiudersi addosso.

È diniego o allucinazione,

l’orma slabbrata sopra il respiro.

Ma già non ha fretta il lavoro:

è per caso, se ti lasci scostare

dalla trama delle riapparizioni.

È di sera, un’incomoda sera.

Il calco della voce dà tregua,

l’odore non stinge intero il palato,

non s’accosta un passo ad un altro

nella febbre dell’immaginario

arrancare tra vecchie salite:

fuori del duomo; laggiù si va in Grecia;

sull’acqua del porto scaglie di sole.

Ed è lì che la vedi, che la rivedi,

in una ruga malcerta del vuoto,

dentro i contorni di qualche suo gesto,

mentre non chiama, non vive e non è:

privazione finalmente assoluta

che arresa può farti annaspare –

ed è frammista l’angoscia al sollievo –

in un capogiro, quindi una fitta

di colma luminescenza cieca.

Un attimo solo. Poi è trascorso.

La stanza, di nuovo, ora è ferma.

Scopri che adesso in silenzio principia

il grato ricatto della memoria.

(per Max)

Dimagrito venti chili in sei mesi

Venti, venticinque, più io non credo,

anni ancora, lì oltre i quaranta,

che, trafugati al niente, pur vedo

sono niente: abulia che m’incanta.

C’è dell’altro, m’imponevo, da fare,

stremato il tempo di soliti gesti:

ogni fuscello d’ardore che resti

saperlo d’entusiasmo ingrassare.

Devo poi aver cambiato partito:

ne ho messa poca, linfa, di me

in ogni franco miraggio svanito.

Anche se… Dico solo: anche se…

E ora questo, ho capito, m’aspetta:

qualche barlume da incatramare,

clismi opachi e riderne in fretta,

l’inerzia al mattino desiderare.

Tra una sigaretta ed un’altra

Solo che intanto il tempo passa:

piano piano, svelto svelto.

Non ho modo, così, di pensare

quel che poteva, quel che non è.

Forte lento, lento forte

dolce amaro mi trascina,

delle sue voglie – che bell’impaccio! –

tutto io inzaccherato trastullo.

Ma poi finirà, sarà già finito.

Testamento biologico

In caso malaugurato di vita,

lascio il fantasma di mala sorte,

cui già da sempre mi son stretto forte,

a chi la puerizia abbia smarrita.

Lascio il gusto di piangermi addosso

– che forse riesco, ecco non posso –

ad ogni accidente incontrato:

lui non ha vinto, son io c’ho mollato.

Lascio l’angoscia di essere me,

l’ansia di sonno ancora un po’,

queste lusinghe che più non avrò,

a chi s’attarda a non credere in sé.

A tutte le donne poi non tenute

lascio il terrore che le avrei perse:

al vero c’ho guadagnato in salute;

si pensano adesso libere intense?

E, sempre a loro, anche io lascio

il ritornello – chissà poi perché:

mica m’ha fatto una coppia allo sfascio! –

che in famiglia la vita non c’è.

Ma pur m’occorre ad esse lasciare

gli innumeri figli che grazie ai santi

ci siamo astenuti dal generare:

l’avremmo cresciuti solo a rimpianti

d’aver – colpa loro – presto dovuto

cessare lagnanze da galoppini

di quanto a vent’anni s’era goduto

e ora s’è vecchi, coi ragazzini.

È tutta per voi, gentili signore,

la mia frustrazione d’adolescente:

non può darsi prole, chi vale niente,

ché, di sé, non la vorrebbe migliore.

E sempre in caso di massima iella

– vivere, insomma, non vegetare –

cos’altro ancora lasciare dovrò,

la buona stella io persa ch’avrò?

Il mio pessimismo senza peccato,

visto che c’ha quasi sempre azzeccato,

sarà tutto di chi, per non sbagliare,

da buon istrione, s’industria a non fare.

L’intero mio disincanto civile,

proprio perché trova solo conferme,

l’offrirò ai tanti despoti in germe:

i qualunquisti che vomitan bile.

La certezza che la democrazia

l’Occidente se l’è messa alle spalle

arricchirà chi crede alle balle

dei populisti di varia genia.

Regalerò l’ossessivo timore

d’un grato ritorno a prima dei Lumi

a chi, riabbracciando il Signore,

del servo non sa d’avere i costumi.

Poi disporrò che si possa scialare

con i vapori del mio narcisismo

chi venga da me a ereditare:

in tutti noi, esso è greve cinismo.

E del nichilismo l’ovvia attrazione

– che ottuso ho sfidato senza tragedia

con uno sforzo perciò da commedia,

non più sognando la rivoluzione

e quindi stretto, al pari di ognuno,

alla scusante del vuoto di senso –

riserverò (o è questo che penso)

ai miei simili tutti, a ciascuno.

Già che sarà di ognuno e di tutti

il piacere – s’urlerò: “ora vivo

o almeno ci provo, e ho lutti

che mi fanno disperato e cattivo” –

di trovarmi senza alcun’utopia

che valga a spiegare questa fatica

di non campicchiare comunque sia

ma garantirmi la lapide dica,

parlando domani in vece mia:

“Con più d’una corsa di fantasia

s’è dato l’arte di starsene sveglio

come credesse ancora nel meglio”.

Facile rima

Che la vita è poi appena questo:

ogni parola legata ad un gesto,

senza tra loro il minimo resto

di falsa coscienza preso a pretesto.

Altra facile rima

Penso sia questo invece la morte:

credere t’abbia fissata la sorte

la voce, che non sa dare manforte,

d’un padre senza finestre né porte.

In veranda, ad agosto

Quasi un poco l’angoscia si scioglie,

col resto del giorno sulla terrazza.

Chiede ristoro, l’ombra che avanza,

dal morso del tempo, stanco di veglie.

Ancora la schiuma d’ogni pensiero,

e già t’accorgi è venuta la sera:

trema nell’aria (sembra un mantello)

l’afa per altri tovaglia di cena.

Oltre le lenti sfocate dal buio,

sberciati nel fumo d’un sigarello,

dietro luci in collasso, un abbaglio,

dopo il cemento del parapetto:

rive, finestre, palazzi, colline;

cielo, una stella, troppa la luna.

Poi quante antenne; appena svanite

carrozze – lontano – d’un qualche treno.

Vicoli, incroci, odori di voci

smorzate dall’eco – sulla statale –

delle vetture che vedi brillare

anche più fitte sul ponte che scorgi.

E facili ingorghi di mediazioni,

appena s’è fatta la mezzanotte:

non è più oggi, tirando le somme,

non già ieri, non ancora domani.

Mettere ordine, laicamente

Purché tu faccia con quello che sei

senza risparmio quello che puoi,

non vorrai dirti pari agli dei

(che dove sono?) né fra gli eroi

(funeste invenzioni di passacarte).

Ma – per il niente, io credo, che conta

come la vita ognuno l’affronta –

ti saprai giusto per la tua parte.



Antonio Tricomi è nato nel 1975. Ha pubblicato i libri di saggistica Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio (Carocci


, Roma 2005), Pasolini: gesto e maniera (Rubbettino, Soveria Mannelli 2005), Il brogliaccio lasco dell’umanista. Cinema, cronaca, letteratura (Affinità Elettive, Ancona 2007), La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea (Quodlibet, Macerata 2010), In corso d’opera. Scritti su Pasolini (Transeuropa, Massa 2011), Nessuna militanza, nessun compiacimento. Poveri esercizi di critica non dovuta (Galaad, Giulianova 2014), Fotogrammi dal moderno. Glosse sul cinema e la letteratura (Rosenberg & Sellier, Torino 2015), Cronache letterarie (Galaad, Giulianova 2017). È autore del volume di quasi-versi La polvere (Stamperia dell’Arancio, Grottammare 2006).

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