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BEPPE MARIANO, Attraversamenti, Interlinea 2018

Non illudiamoci: l'ultimo libro di Beppe Mariano, impastato con saggezza e immaginazione in parti uguali, non è opera da leggersi a episodi, a salti, come spesso si pensa possa essere letta un'opera di poesia - soprattutto quando essa sembra, almeno all'apparenza, costituita da parti diverse fra loro. Attraversamenti va invece esplorato in tenuta subacquea, con profonda concentrazione - e, proprio come accade in un'immersione, in un tempo denso, scandito e breve. Senza far altro, senza distrazioni e dislocazioni. Dedicando un'unità teatrale di tempo, luogo e azione, in omaggio all'eponimo monologo del profugo, in apertura di libro. Perché Attraversamenti, nonostante l'apparenza composita, è un'opera estremamente compatta, percorsa da un sentiero ininterrotto che certo non è nuovo nella ricerca dell'autore e che può riassumersi così: una coscienza del proprio tempo elaborata con mezzi originali, espressa nell'assolo vigoroso, testardo e scabro di un poeta non allineato. "Per sfuggire al rumore della città, sono salito/ in montagna. Ma qui lo ritrovo (....)". " Si cammina per poter volare / ho lasciato la città e mi sono rifatto/ camminante." La preoccupazione di Mariano è per il mondo che lasceremo: un mondo di plastica , dove la leggerezza palazzeschiana di Perelà ha lasciato posto alla demenza digitale di cui parla Manfred Spitzer. Sono molti i testi che rivelano questa preoccupazione, talora nel tipico stile fra ironico e polemico che caratterizza una delle firme di Mariano (un po' alla Karl Kraus): il giovane sgargiante che sembra un sacerdote della dea Velocità, l'uomo maturo che per emulare il figlio pigia erroneamente i tasti come un "vecchio mal vissuto" di manzoniana memoria; i messaggi dispersi nel cyber spazio, il mondo che si affloscia su ruote molli come un moderno colosso d'argilla, la minaccia periodica dei vari bug o loro varianti. Questa è la realtà che lasceremo, cosi dedita alla moltiplicazione delle immagini da rendere possibile ormai solo nella poesia il fermo immagine che si vorrebbe: una montagna, l'ispirazione di un viaggiatore su un treno, l'accecamento della bellezza che ci passa accanto.

Neppure la bellezza ci salva a buon mercato: anch'essa è "bifronte" , deve accogliere strascichi e dissonanze, "rischiare / il disarmonico - che pure è vita a venire"; addirittura bellezza e crudeltà sembrano provenire dalla stessa fonte, seppur divina. In questa realtà allarmata anche i poeti debbono muoversi e Mariano sceglie di farlo in uno spazio plurale ("Preferivo quando molti erano gli dei", recita in testo argutamente in bilico tra il serio e il faceto); in uno spazio appartato ma carico di empatia verso la natura e, nonostante le apparenze ispide, anche verso gli esseri umani. Non potrebbe essere diversamente in un'opera che si apre sulla recitazione di un profugo dall'inquietante, e certo non del tutto verosimile, vicenda para-edipica, che viene scelto dall'autore come cassa di risonanza di una cultura occidentale ormai inarrestabile nel suo declino.

La parola d'ordine di questa particolare "sympatheia" coincide, forse non del tutto consapevolmente, con il titolo di una poesia fra le più epigrammatiche dell'intera raccolta: "L'avanzo". A prima vista è solo un episodio insignificante su cui il poeta, come spesso accade, riflette e trae conclusioni che sono nello stesso tempo fonti ispirative e spunti gnomici. La riparazione dell'auto rivela un pezzo extra-vagante, imprevisto, inutile nel sistema. "L'avanzo è stato a lungo indagato./ Non si è capito quale funzione avesse all'interno/ del motore. Per me ha finito per simboleggiare/ il libero arbitrio, per il meccanico lo smacco/ di un sistema che credeva di precisione." Dall'avanzo, allo scarto, alla marginalità (con la quale, lo ripetiamo ancora, il libro si apre), alle cose non raggiunte, o dimenticate in orgoglioso appartarsi, ci accorgiamo gradualmente che il libro è letteralmente percorso da questo campo semantico, che ne rappresenta addirittura l'arteria principale. "L'augure che interpretò il volo degli uccelli/ è diventato lui stesso uccello, per di più senz'ali (....)" "Ogni giorno s'accorge che non ha più posti/ neppure nel folklore (..)" "Un piccione scartato dagli altri. / e non puö volare rassegnato " "La notizia, / non essendo tale, non è diffusa dalla televisione".

L'altro versante della marginalità è l'avanzo volontario: quel manto di foglie con cui le querce secolari si proteggono dagli abitatori indesiderati, o il frutto di Saffo, inaccessibile ai raccoglitori comuni. Viene in mente quella "pietra scartata dai costruttori , diventata testata d'angolo" del salmo 118 e del Vangelo secondo Marco, non ignorata dal Corano. "Quel pezzo avanzato è diventato/ un fermacarte della mia scrivania, ma soprattutto/ un arcano, che interrogo ogni giorno". Mariano si muove fra serio e faceto come sempre, a metà fra un'aura sapienziale e la leggerezza della distanza - ma questo è anche il senso dell'intercalare Calamonta Montacala, un saliscendi di sapore decisamente eracliteo: è la saggezza di un'età della vita che, quando ben vissuta, sa dosare la facezia come nessuna giovinezza potrebbe, se non di ritorno. E tra meditazione e sorriso, proprio questo sembra dirci l'autore: che la vita, per quanto abbia regole implacabili, ammette l'eccezione (lo "scarto", appunto!) e questa eccezione è fuori dai nostri pixel, dalle nostre previsioni e dai nostri calcoli ingegneristici di rischio e beneficio. Sono "cose/ segrete e minute/ ma dall'ampia vita". Stravaganze nel grande flusso, talenti inutili come inutile è la poesia, la sola, tuttavia, che renda accettabili le tragedie e inveri i miracoli: "Una donna in croce, e per di più nera: un'ipotesi/ insensata. Solo la poesia può ritenerla vera."

Ecco qual è il messaggio della lunga ricerca di Mariano: darsi tempo, trascorrere la vita come uccelli di rupe, con la marginalità corsara di pietre angolari emerse dal vortice tecnologico di un'epoca impazzita, che persino nel silenzio di Dio o della sua principale rappresentante secolare - la verità - dovrà sempre arrendersi di fronte alla perfezione di un prato.

(Alessandra Paganardi)

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