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Luigi Picchi, Antiqua lux, Moretti & Vitali Editori, 2018 (di Alessandro Quattrone)

Che un poeta contemporaneo decida di scrivere (peraltro con una chiara visione progettuale) una raccolta di poesie tutta incentrata sul mondo classico, sui suoi valori e il suo modo di guardare, è di per sé una notizia sorprendente. L’opera – con un giudizio frettoloso - si potrebbe definire anacronistica, frutto di una concezione classicista della letteratura piuttosto datata e dura a morire. Eppure le cose non stanno così. Il lavoro compiuto da Luigi Picchi ha una sua intima necessità, che lo rende originale per i nostri tempi, spesso così confusi da far scambiare il veleno per l’antidoto e viceversa. Tempi in cui non si sa più nemmeno riconoscere ciò che potrebbe giovare tanto alla salute spirituale quanto a quella letteraria. L’autore, con il coraggio non certo incosciente di chi ha da offrire una visione, anzi un mondo - non un io solipsista - e con il passo fermo di chi crede in ciò che riferisce o inventa, propone antiche certezze proprio quando smarrimento, sbandamento e stordimento sembrano essere le cifre dominanti. E lo fa non da semplice imitatore: assimila, rielabora, rivive. È custode e trasmettitore di ciò che ha appreso, umile e convinto come un monaco. Dunque il suo discorso poetico è privo della presuntuosa arroganza - cioè della grossolana simulazione della sicurezza - che normalmente si mostra in chi si offre in modo narcisistico all’attenzione dei miseri mendicanti di pensiero, affamati solo di apparente buonsenso e di formule sbrigative. Come ha scritto Giancarlo Pontiggia nella postfazione al libro, “difficilmente, nei prossimi decenni, ci capiterà di leggere un libro di poesia fondato su paradigmi rigorosamente storico-culturali, così alieno dai lirismi e dai soggettivismi cui ci siamo abituati nell’ultimo secolo”.

Bisogna rendere merito all’autore di aver voluto e saputo portare una “luce antica” nella contemporaneità (Olea fragrans il profumo / del tuo candore, Valeria. // Api le tue parole), senza quegli stucchevoli atteggiamenti di venerazione della forma che rischierebbero di respingere il lettore (non addetto ai lavori), facendogli credere che il linguaggio poetico sia qualcosa per studiosi un po’ stonati e nostalgici, non per gente comune che ha una sensibilità e un’intelligenza da nutrire. I testi di Picchi dunque conservano e diffondono lo spirito degli antichi con un linguaggio che dagli antichi ha appreso la linearità e la significatività, oltre che la sentenziosità severa ed elegante, e che somiglia tanto alla traduzione moderna di autori del passato. Nella prima sezione del libro (Plinius minor) il poeta fa addirittura qualcosa di molto originale: trae dalle epistole di Plinio il Giovane il materiale da adattare, con lievi ritocchi, alla forma poetica; cosicché ci ritroviamo davanti a testi che sembrano riflettere la colloquialità discorsiva e il tono dimesso di certa poesia contemporanea, ma in realtà contengono parole di un autore – non un poeta! – di duemila anni fa. Un piccolo podere è metafora / della vita come luogo definito / e microcosmo. // Bello è dominare il campicello / e in tutti i suoi angoli conoscerlo. // Lode, dunque, al dio Termine! (I, 24)

Plinio il Giovane ci appare come un modello umano non eccelso, non idealizzato, e quindi raggiungibile. Ha le sue vanità, un ruolo pubblico importante, ma i suoi desideri in fondo sono semplici e austeri. Il cielo stellato sopra di lui / nell’armonia di una vita regolare. / Questa la sua aspirazione. (...) L’intervento di Picchi, oltre che nella versificazione, è evidente nell’idea di mettere in terza persona ciò che nell’originale era in prima, come se il contenuto dei versi fosse frutto della testimonianza di un osservatore esterno. Osservatore che si può identificare in Octavius, alter ego dell’autore, il quale nella seconda sezione è il poeta di epoca romana che guarda e rappresenta il mondo con gli occhi di un uomo antico. Octavius formula giudizi e concepisce pensieri che, per la loro puntualità, possono essere ritenuti sempre validi. Non a caso Picchi si serve di questa figura, che viene citata nell’epistolario di Plinio il Giovane, per dire ciò a cui più tiene, quelle verità semplici – e perciò sconvolgenti – che solo gli antichi potevano permettersi di pronunciare. È in questa sezione che il tono e lo stile di Picchi ricordano – come già detto – le migliori traduzioni italiane di poeti romani come Marziale o Orazio. Si veda come esempio Per una gatta, che riecheggia la dolente tenerezza di certo Marziale: Qui giace Cinis, gatta schiva / e solitaria. Solo ai piedi / del suo poeta s’accucciava / fedele e devota come una musa. // Ora questo epitaffio affettuoso / che la eterna ha ben meritato. Allo stesso modo si sente l’eredità oraziana nella poesia seguente: Non mi interessano le vostre cime, / Alpi, dove posano il piede solo gli dei. // Mi bastano questo pergolato, la sua ombra, / il laborioso ronzio delle api e questo epigramma / per Valeria. Non si tratta di versi carduccianamente barbari. Sono i testi di un contemporaneo che si è talmente identificato in un mondo scomparso da apparire come un personaggio di quell’epoca; un contemporaneo che occupandosi di argomenti anche minimi, legati a un’altra civiltà, può evadere – certo – dalla prigione del mondo moderno, ma solo per sperimentare una forma di serenità al di fuori dei suoi limiti e delle sue bruttezze: una serenità che possa restare in memoria come consolazione ma soprattutto come forza propulsiva per superare il presente con tutti i suoi deliri spacciati per certezze, dal momento che nel presente l’anima sembra non avere diritto di abitare. Probabilmente è appunto la serenità l’aspirazione di questo libro, se è corretta l’interpretazione della figura del monaco di Quasi un proemio, il quale, nella sua solitudine di copista, nei suoi silenzi circoscritti, svolge il suo compito con paziente fedeltà fino alla morte: (...) Mai viaggiato, mai / lasciata l’abbazia / e fuori dallo scriptorium / solo il breve cammino / del chiostro, gli ambulacri, / le ore in coro, le meditazioni / e le penitenze in cella. / (...) Così in me è cresciuta / una cattedrale di parole / e cose dove Dio riposa / e siede sovrano. (...)

Picchi è scrittore, ma anche trascrittore, in un certo senso, di quello che ha ricevuto: incarna e reincarna, e attribuisce al suo libro – e alla letteratura – il valore prezioso che ha ogni cosa capace di riconciliarci con il mistero della terra e del cielo. Non per niente nell’ultimo componimento immagina che Lucrezio, il grande cantore latino delle certezze razionali, dopo morto si ritrovi nell’aldilà (per giunta cristiano, non pagano!) a scoprire una verità pacificante, una verità metafisica che da vivo non avrebbe mai e poi mai immaginato. (...) Qui c’è luce infinita / e non l’inutile, freddo, morto vorticare / d’atomi destinati al nulla, qui non serve / la parola, qui c’è la Parola (...) / qui c’è una pace / che è fermento, un silenzio che è musica / ed è finito il cercare, il perdere, la paura. (La profezia di Lucrezio)

Insomma Antiqua lux è un libro che sembra scritto da un civis romanus ritrovatosi nell’epoca moderna a fare i conti sia con la quotidianità che con le grandi questioni della vita, un civis romanus che abbia affidato alla scrittura il compito di permettergli la sopravvivenza in un territorio in cui si perderebbe, se non fosse per la “antiqua lux” che rischiara l’oscurità del percorso.

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