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Marco Beck, Un giorno tra due notti estive a Klàipėda

a Audra Uzemeckiens,

nativa di Klàipėda,

indimenticabile conduttrice

di un viaggio memorabile

*

Avrei dovuto, forse, imitare il gesto con il quale

Paolo VI salutò, disceso dall’aereo a Tel Aviv,

la Terrasanta, nel gennaio del Sessantaquattro:

piegarmi prima sui ginocchi, poi curvare il volto

fino al suolo, e l’asfalto di Klàipėda baciare,

storica radice e città santa della mia famiglia.

Da lì, da quel centro mercantile, quell’emporio

di antica tradizione – porto anseatico, il solo

dell’odierna libera (da poco) Repubblica Lituana,

non sul mare aperto gravitante, ma sul vertice

della laguna che la stretta, interminabile penisola

detta di Neringa con le gigantesche dune

e le foreste di conifere protegge dall’assalto

dei venti e delle onde del Baltico in tempesta –,

venne qui in Italia, verso la metà dell’Ottocento,

un mio antenato (probabile trisavolo) del quale

non s’è nella memoria familiare altro conservato,

altro tramandato, che il semplice cognome: Beck.

Memel, toponimo tedesco, designava allora

quel nido suo marino, tra il mondo pangermanico

(Prussia, Cavalieri Teutonici) e l’universo slavo

(Polonia, Russia, Bielorussia) per secoli conteso.

Dove, del resto, avrei potuto posare le mie labbra,

su quale superficie, in cerca di un quasi mistico

contatto che di lui, valicando i confini del tempo

trascorso fino a quel mio viaggio, qualcosa mi narrasse?

Qualcosa della nascita, dell’adolescenza e giovinezza,

del commiato dalla nordica laguna dei Curoni,

del trasferimento sulla ben diversa laguna veneziana,

ultima intermedia tappa prima del finale approdo

alla sua nuova patria d’adozione, alla Milano

del bisnonno, di mio nonno, di mio padre e mia?

Non avrebbe avuto alcun significato prosternarmi

per baciare la banchina di solido cemento

dove attraccano e ripartono i traghetti oramai

provvisti di motore, adibiti al trasbordo di automezzi

dalla terraferma all’antistante penisola boscosa.

Tanto meno, ritengo, avrebbe avuto senso

toccare con la bocca, dare un bacio al lungofiume,

sponda sinistra del Dané, là dov’è all’ormeggio

– reliquia di un passato in cui si navigava a vela –

un brigantino, deprivato della nobile funzione

marinara per essere ridotto a lussuoso ristorante.

Né mai mi sarei inginocchiato a consacrare

il nudo, ruvido selciato della piazza del Teatro:

fu dal balcone di quell’edificio che nel Trentanove

contaminò la folla e la città, col suo proclama

delirante che annunciava la gloriosa annessione

del Paese lituano al Terzo Reich, il Führer.

Devo riconoscerlo in sostanza, mio avo klaipėdese

cinto di mistero: ciò che mi è mancato è l’umiltà

di rendere un devoto omaggio alla tua Magna Mater

sfigurata dalla tetra edilizia del regime staliniano

non meno che dalle distruzioni di due guerre.

No, non era, in quel viaggio turistico attraverso

le tre giovani Repubbliche sul Baltico, un primario

sentimento l’umiltà. Piuttosto, proprio a Klàipėda

e in tutta la Lituania in generale, una forma

d’intima fierezza: un vivere in segreto il silenzioso

orgoglio di serbare nelle vene una – minima, certo –

percentuale del tuo sangue, mio sfuggente trisavolo

del quale non conosco il nome di battesimo,

l’età quando partisti, e se fossi alla partenza celibe

o sposato con una conterranea bionda come Audra

(nostra guida nel percorso da Vilnius fino a Tallinn),

avendo già con te, o non avendo ancora, una famiglia.

Persino ignoro la motivazione – scelta difficile di vita?

ragioni di lavoro, di commercio? sete d’avventura? –

che ti spinse a separarti dalla tua nativa costa

per migrare, per discendere da nord a sud l’Europa

e di me, tuo trisnipote, fare quel che sono: un italiano.

Fu sul filo di queste ed altre riflessioni e fantasie

che una conclusione si affermò nella mia mente:

non dovevo io baciare, come fossi uno straniero

folgorato da improvviso amore, quella terra.

Ma lasciare che quel cielo stranamente azzurro,

che quel caldo sole più mediterraneo che lituano

e il tranquillo mare interno e le imponenti dune

e i fitti boschi di Neringa abitati da leggende arcane

fossero loro a baciare, sotto lo sguardo ed il sorriso

e la benedizione del Signore, i passi trasognati

del perduto figlio dopo tanto tempo ritrovato.

luglio – dicembre 2019

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