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A ogni stelo che strappa alla notte: su Custode del mattino di Franco Canavesio

Franco Canavesio è l'autore della raccolta "Custode del giardino" (edizioni Aurora Boreale 2019, con una magistrale prefazione di Mario Marchisio). Sorprendente esordio tardivo, proprio come i molti fiori e frutti del gelo che parlano dalle sue pagine. Sorprendente,anche perché il custode del polisenso giardino è a sua volta ingegnere della natura, artigiano della luce, "sognatore delle isole" per citare le sue esatte parole, musicista del vento. Gli ingegneri, si sa - Canavesio lo è anche nella vita - animano le costruzioni dell'uomo di circuiti e campi, trasformano in codici le parole, portano in giro in microscopiche valigie l'energia immateriale delle idee e la restituiscono in altra forma.Se poi sono poeti (mi vengono in mente almeno due felicissimi casi viventi oltre al Nostro: Alessandro Catà e Fabrizio Bregoli) scrivono la vita in quel codice agenetico che è l'arte: vita sempre, ma riprodotta in altri caratteri, forse più semplici da decodificare.

In questo libro tutto ha un esito e nulla va perduto. Ce lo dice la natura stessa, nelle cui creature, come nel celebre passo dello Zibaldone , Canavesio a tratti si identifica. Ora creatura d'aria con un' impenitente fame di luce e stelle, ora gelso, parietaria o goccia di mare, tutto il poeta vede ed esplora, testimone incessante della trasformazione. In un bellissimo gruppo di testi la com-passione per l'elemento humile trasforma l'autore in un camminatore a piedi scalzi, dove neppure una cellula del corpo manca di sentire una fraternità francescana con la terra dei lombrichi, fatta con le ossa dei morti. Non stupisce che l'altro riferimento, sottaciuto ma presente, sia Icaro. Presente ovunque, nella folle corsa a capofitto (come non pensare anche all'Ulisse di Dante?) dei ragazzi in bici, impedita dai dissuasori di velocità, e nell'incredible sete di volo dei molti sogni a occhi aperti. Più luce, recita un testo, cripto-citando la visione terminale di Goethe. La natura, come la pelle, conserva tutto e si decifra con i sensi sottili. Non c'è alto e basso (ricordiamo che in molte lingue indoeuropee, fra cui il latino, la vox media corrispondente ad "altus" indica profondità in entrambi i sensi). Non c'è materia vile, tutto è sacro nel cosmo e lo dimostra il risucchio della linfa verso l'alto. Uno solo è l'istinto vitale, zampa di lupo o battito d'ala. Tutto è puro, purché si sia capaci di cooperare con la natura trasformando alchemicamente il male: "A noi rimane un compito/ trasformare in risorgive le pozze di fango/ i liquidi immondi/ in rivoli di limpide rogge" (p.104-105). E a questo serve il poeta-custode, camminatore, artigiano, esploratore, paracadutato da un mondo altro in cui brama tornare.

È un libro che racconta anche la cronaca di un'ascesi spitituale, con tutto il pudore di riservare i momenti più autobiografici alla fine e nei passaggi di commozione e nostalgia affidarli a un segno, a un suono, a un ricordo letterario - memorabili i tocchi a pennello del volto della madre e degli altri affetti negati o perduti, delegati in una sorta di operazione apocrifa ai maestri rinascimentali e rimasti appesi alla pagina come nobili ritratti di famiglia in un castello di notte. L'apice dell'ascesi è al centro del libro, nel testo che comincia con "Verso l'oro, se respiri". Dopo questa poesia, se qualcuno avesse ancora dubbi sulla natura fortemente esoterica della ricerca di Canavesio, essi sarebbero tutti abbondantemente fugati. Un altro nome che viene in mente è quello di Rudolf Steiner, che tanta importanza attribuí al sonno come fase privilegiata di ricongiungimento dei corpi sottili con il gran corpo astrale

Eppure il poeta, per rabdomante e alchimista che sia, resta nella realtà con tutte le armi e le facezie della ragione. Il mondo dell'alienazione attrae, ma forse il privilegio dell'arte è proprio quello di sorvolarlo e continuare a trasformare. L'arte è la natura creatrice, la follia una sua occasionale manifestazione distruttiva, come può essere un sisma - che tuttavia, in una visione più ampia, è esso stesso creatore. Così la poesia, figlia di un trauma umano originario - che è in fondo l'impossibilità della vita di bastarsi - si abbevera ai succhi scuri della follia, ma è capace di trasformare anche quelli. Il custode, l'ingegnere, il sognatore diventa allora, appunto, anche una specie di "folletto" ( folle soltanto in po'?) che si aggira fra gli elementi. Un metaxú capace di attraversarli, "infrangendo il domestico limite/ la quiete del nativo elemento" (p.107): proprio come gli angeli, che tanta parte hanno in questa scrittura. Il poeta è mediatore, spartisce nel mondo i doni del cielo. Come l'uccello delle Upanishad vediche guarda il frutto senza mangiarlo, il poeta - come dice Sbarbaro - non ha altra felicità che di parole: eppure in queste preserva il senso intero della vita, "più accogliente della scorza del cuore/ più concreto del palmo delle mani " (p. 117).

(Alessandra Paganardi)

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