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Albertina Bollati-Stefano Vitale, Incerto confine, disegnodiverso, 2019

Ci fu un tempo in cui il mondo era fatto di immagini. Era il tempo dell’infanzia, delle “nebule”, dell’apprendimento spontaneo e velocissimo del mondo. Un tempo senza menzogne, totalmente affidato ai sensi. Un tempo preletterario, ancora privo di scrittura. Eppure le due epoche non sono strettamente successive, se non per l’analisi astrattamente intellettualistica, che tutto tende a separare e distinguere. Si tratta di due modi concomitanti di operare della mente: due visioni, due sguardi, due alfabeti.

La singolare relazione che intercorre, in particolare in quest’opera, fra l’immagine disegnata (con il suo forte potere d’impatto) e il testo (con la sua apparente astrazione) mi hanno portato a domandarmi: che cos’è l’immagine per ciascuno di noi? È solo il risultato di un modo immediato di guardare il mondo, o è qualcosa di più? Perché i bambini disegnano? Non lo fanno forse, come i primi artisti delle grotte di Altamura, per stabilire un dialogo in assenza soltanto apparente di parole – dato che la parola c’è da sempre ed è consustanziale al bisogno umano di comunicare?

Non si dà un “prima” e un “dopo” fra immagine e testo, in quest’opera. C’è una scrittura a due facce, consapevole del fatto che, anche spostando lo sguardo verso un’improbabile epoché fenomenologica, ed essendo ipoteticamente capaci di fare piazza pulita di tutto il superfluo, è impossibile tornare indietro. I versi sono essenziali, ma taglienti. Le immagini non sono semplice mimo dell’infanzia, ma sguardo al di là del muro – come, a pag. 38, il volo fortemente simbolico della bara azzurra trasportata dall’aquilone. «Passare il confine è un viaggio verticale», scrive il poeta nel testo affiancato. «Vita che si cerca/ nei silenzi turbolenti/ entra in se stessa/ rinasce sprofondando». E allora si capisce bene perché la bara color del cielo abbia più che mai la forma dell’albero della vita dello Zohar, e come la croce non sia simbolo di morte, né cristallizzata consolazione da catechismo, ma punto d’incontro fra terra e cielo, geometria del viaggio dell’anima verso la conoscenza.

Ho voluto prendere a esempio il disegno forse più simbolico e forte dell’opera, ma di tutte si può notare la sintassi complementare, che esclude ogni forma di illustrazione, commento o banale didascalia fra i due linguaggi. Tutti i disegni mostrano paesaggi dell’infanzia, riprodotti e risimbolizzati da una mano capace di volare al di là delle cose. I colori, i paesaggi, la presenza ingrandita di alcuni dettagli come il rigo musicale, alludono alla storia personale e la lasciano immediatamente sullo sfondo. L’effetto è quello di produrre una forma non intellettualistica di astrazione, strappando le immagini dal loro supporto realistico per suggerire un piano di lettura interamente simbolico. E il symbolon – come avverte Platone nel Simposio – è ritorno all’integrità, ricomposizione. È ritrovare quell’interezza di sguardo che, proprio come l’androgino, si riferisce al primo rapporto amoroso con il mondo, quello che ancora non separava gli alfabeti. Un alfabeto muto, scrive l’autore: «Cerchiamo la parola esatta, àncora/ che viene dal bene/ che ci afferri come un destino// Cerchiamo la parola esatta, luce/ nella piega delle labbra/ nel gesto lieve delle dita// Cerchiamo la parola esatta, argine/ che ci renda lo splendore del silenzio/ senza vergogna né rassegnazione// Ma quel che abbiamo è/ un alfabeto muto/ passo senza cognizione/ pieno d’errori, / distrazioni, omissioni» (p.29).

Non è soltanto un’operazione estetica, la scrittura, o meglio è un’operazione estetica che ha in sé la propria etica: la missione di risignificare il mondo attraverso quella “meraviglia” di cui parlavano i presocratici. Chi crea lo fa rivisitando il simbolico, ma non nella sua valenza puramente comunicativa e convenzionale – come fosse, montalianamente, «qualche storta sillaba/ secca come un ramo». La scrittura – a qualunque alfabeto si richiami – può e deve fare ben di più: deve rispondere al nostro bisogno di permanenza, continuamente minacciato disincanto del mondo, dalla coscienza dell’effimero, dal tramonto di sistemi e ideologie. Ogni qualvolta tale operazione si approssimi all’ obiettivo, il lettore rimarrà contagiato da una tensione antica e mai davvero dimenticata: la stessa di chi scrive, e che può forse chiamarsi eternità. (Alessandra Paganardi)


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