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Alessandro Pertosa, Appunti per una poesia in flusso

1. Esordio prosapoetico

Niente è più sfuggente della poesia; arte di un fare impossibile: che prova a dire ciò che non si può dire, volendo dirlo lo stesso - nonostante tutto; per ripartire ogni volta daccapo; nella speranza di scovare il segreto della vita: o quella parola che salva; mentre il tempo, intanto, fugge irreparabilmente.

Ma non ci si può esimere dal tentare l’impossibile. Non ci si può esimere dal provare a sfiorare l’intoccabile; a definire l’indefinibile. E più la poesia sfugge alla presa, più è necessario braccarla, sapendo di non poterla mai afferrare: polvere di stelle e alito di vento; tanto per cambiare (cfr. A. Pertosa, Biglietti con vista sulle crepe della storia, Puntoacapo editrice, 2020).

Dicono che la mia poesia sia in prosa. I più arditi addirittura scomodano il prosimetro. Ma se è mai possibile dire l’indicibile, dirò: la mia poesia… è poesia in flusso. Flusso di variazioni ritmiche e improvvisazioni che compongono la corrente musicale.

Non mi interessano le avanguardie, le sperimentazioni. Non sento la chiamata dal futuro. Nei miei timpani risuonano versi antichi: ritmi secolari che curano le trasgressioni* del presente, con battute e pause in contrappunti. - O più semplicemente: scrittura che mantenga ritmo e suono, in un flusso continuo non versificato. [E il non non sta per meno, per mancanza; il flusso non vive di negazioni; ma di armonie discordanti che balbettano, tentennano; vive di voci a cui manca il respiro: perché la fragilità che voglio narrare è nella pausa, nel punto, nel battarelevare fuori tempo; nell’accordo di minima, dissonante… e il tutto che concorre alla composizione, al risultato: appeso sempre a un filo fragile, slabbrato].

* Nota: Le trasgressioni sono ormai prassi consolidate, dunque allineate, per niente anticonformiste. La vera trasgressione è tornare all’antico, alle pale d’altare di Pier Paolo Pasolini: a quei ruderi, a quelle chiese e ai borghi abbandonati sulle Prealpi e sugli Appennini.

La poesia risplende e suona nella voce che cede a tratti. Ed alla voce consegno il sussulto della parola, che non vuole saperne del verso. A maggior ragione nel momento in cui rinnega la rima (alternata, baciata). Perché la rima in chiusura di verso è un accordo maggiore. È la chiusa di una armonia perfetta. Di un incedere trionfante; risorgimentale. Ma io ho bisogno di cadute e di respiri affannati. Di pause e schianti in controtempo. È lo strazio del blues ad affascinarmi. La tortura improvvisata del jazz. E non il primo terzo quinto, con l’accordo che risolve in un’armonia tonale.

Ma fare a meno della rima alla fine del verso, non vuol dire negare la rima. La rima ritorna nel bel mezzo di un levare; in un accordo dissonante e intempestivo, quando meno te l’aspetti. Ritorna per spalancare spazi, slabbrare lo spartito della voce e mandare fuori tempo il ritmo, torcere il flusso, per costringerlo a tornare sui suoi passi, in pose atletiche, elastiche, che si tendono allo stremo. Si tendono e si ritirano all’improvviso, nel cuore di una voce che risplende in qualche altrove.

Ma non c’è niente di nuovo in ciò che scrivo… molta poesia contemporanea è poesia in flusso - magari in modo inconsapevole. E tenterò di darne prova (cfr. infra, paragrafo 3. Poesia in flusso: ipotesi di lavoro).

2. Poesia in flusso

Cosa fare della poesia, dal momento che si rinuncia alla metrica blindata e alle rime, è questione antica. Alcuni hanno assunto il verso libero, altri il verso sciolto; altri ancora hanno sperimentato varie forme di prosimetro o tentato la via della poesia in prosa, cercando un terreno mediano fra due generi letterari diversi. E c’è infine chi - come Tzvetan Todorov, una quarantina di anni fa - nel suo saggio sulla poesia senza il verso (cfr. Les genres du discours), sosteneva che la caratteristica primaria della poesia in prosa di Rimbaud è lo «stile presentativo» (contrapposto a qualcosa di rappresentativo): e da qui infine l’esperimento della prose en prose (prosa in prosa).

Tutte opzioni interessanti*, che tuttavia non sono le mie. A me interessa il suono poetico nella sua composizione complessiva di flusso musicale. Mi interessa recuperare il valore orale del fare poetico; la vocalità della poesia. Il risuonare della melodia fra il significato e il significante, sottraendo il risultato alla gabbia del verso.

* Nota: Nutro una certa idiosincrasia a incasellare la poesia. Aborro le definizioni di «poesia in prosa», «prosa in prosa»: le uso qui soltanto per semplificare il discorso, dando per scontato - ma non lo è affatto - che questi sintagmi significhino qualcosa o risultino minimante intelligibili, almeno a chi ha una certa frequentazione della critica poetica.

Scrivo poesia come fosse una sinfonia. Un brano musicale. Una composizione corale. Per questo la mia pagina bianca è lo spartito; le parole sono le note; la punteggiatura e gli spazi sono le pause (che non sottostanno alle regole della sintassi). Il tutto sgorga come un flusso*… come la vita che la poesia prova a indicare - senza poterla dire; senza poter sfiorare il suo intimo segreto.

* Nota: Il flusso va inteso come voce poetica produttiva (anarchicamente produttiva), non come una linea musicale interna ad uno schema armonico. Il ritmo coinvolge la sintassi e si fa vento inafferrabile. La poesia in flusso si sottrae ad ogni presa, a ogni definizione, a ogni blindatura. È chiaro che per parlare di poesia e flusso devo usare la parola, l’immagine sbiadita di una voce, di una definizione. Ma proprio per questo, l’unico modo in cui posso «dire» la poesia in flusso è «dirla» usando il limite linguistico: ovvero una esemplificazione che rende l’idea, ma che va presto abbandonata. Perché non è la definizione a contare. Non è lo schema. E invece di parlarne, bisogna farla la poesia in flusso: fedeli al dettato deriddiano, secondo cui «il ny’a rien au dehors du texte» (non c’è niente fuori dal testo). La poesia parla per sé: non va definita, né spiegata… Eppure tu la spieghi, mi si potrebbe contestare. Sì, la spiego e mi contraddico. Mi contraddico continuamente: contengo moltitudini.

Il tutto sgorga come un flusso, dicevo. In un respiro continuo. Ma è pur sempre poesia. Non prosa. Segue il ritmo, la sonorità, e talvolta persino la ricerca metrica dell’endecasillabo, del settenario, del quinario, in una loro poliedrica composizione: senza tuttavia avvertire l’esigenza di mostrarsi cadenzata nel verso; che talvolta - ma in casi rari - può presentarsi comunque come rottura della voce, della linea armonica centrale: per segnare un punto; o un vuoto. [E non chiedetemi quando accade questa rottura. Posso solo dirvi che accade. Può accadere… quando il flusso di poesia avverte la necessità di un taglio, di una caduta… ecco che il verso compare].

Poesia dunque. Poesia a tutti gli effetti. Non poesia in prosa. Non prosimetro. Ma poesia in flusso, priva di versificazione. Poesia e poesia: basta. Senza definizione.

3. Poesia in flusso: ipotesi di lavoro

Molta poesia - e talvolta ottima poesia - scritta in versi avrebbe potuto presentarsi nella forma in flusso. È il caso dello splendido componimento che Eugenio Montale dedicò a sua moglie: Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale (è la poesia n. 5 di Xenia II, in Satura 1962-70, Milano, 1971). Nella versione originale, leggiamo:

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue.

Ora provate a chiudere gli occhi. Fatevi leggere, ad alta voce, la stessa poesia scritta come in un flusso musicale, cadenzato da pause, attraversato da ritmi:

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale; e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni; le trappole gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio; non già perché con quattr'occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due; le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate; erano le tue.

Di seguito presento altri tentativi di riscritture* di poesie che amo, e che si mostrano - ai miei occhi - come poesia in flusso.

* Nota: Proprio a partire da queste riscritture in flusso, si potrebbe obiettare che i miei tentativi presentano dei rischi, sono degli azzardi. Perché, se si vuole ascoltare la «voce» della poesia, basterebbe seguire la strada di una certa lettura presente già nel testo, indicata dall’autore, senza stravolgere versi e struttura (più semplicemente: leggi il verso per come è, e lascia stare). L’obiezione è sensata. Ma d’altra parte con quelle riscritture, io non intendo dire che gli autori presi in considerazione avrebbero dovuto scrivere in altro modo (gli originali reggono anche nella forma pensata). Con queste riscritture intendo mostrare come scriverei io quei testi, seguendo il risuonare in me del flusso. Di quel flusso che s’inserisce nel fiume eracliteo della vita, consentendomi di sfiorare il segreto delle voci dei singoli autori. E questo risuonare in me è l’atto poetico principale. Io continuo a pensare alla poesia come a un'arte prevalentemente orale, che va ascoltata, recitata a voce alta. E in tal senso, allora, la versificazione mi sembra spesso superabile: ma non è detto che lo sia sempre; e soprattutto per me non è detto che lo sarà per sempre. Tutto è provvisorio; anche queste mie parole sono provvisorie; ed è provvisorio che queste mie parole siano provvisorie; e con buona pace di chi nega la regressio ad infinitum, accetto il rischio di rimanere zitto: perché di provvisorietà in provvisorietà si ammutolisce. Ma proprio quando tutto è avvolto dal silenzio sorge, senza appigli, un «provvisorio» flusso poetico.

Dunque, torniamo alle riscritture, e veniamo agli esempi:

a. Corrado Bagnoli, Il cielo di qua, La Vita Felice, 2018.

(versione originale)

Chissà, forse c’erano cent’anni fa

queste creste, petali increspati

o stracci mossi dagli anni, dai venti

a scrivere un valzer bianco, una svolta

di parole a rompere, a pungere il cielo,

a scivolare giù, tra gelo e gelo;

a cambiare il suono e il tempo

di quello che sentiamo dentro;

a mettere scoperto il cuore, a vedere

il giro del sangue dove va davvero,

qual è il passaggio dov’è più debole,

dove ha chiuso e dove ha aperto

il bene e il male, da quale costola

si è sciolto e poi si ricompone

diverso e uguale, con quale nome

lo puoi chiamare il cerchio

di vele, il fuoco spento, la corolla

che adesso siamo diventati.

(riscrittura)

Chissà, forse c’erano cent’anni fa; queste creste, petali increspati; o stracci mossi dagli anni, dai venti: a scrivere un valzer bianco, una svolta di parole a rompere, a pungere il cielo; a scivolare giù, tra gelo e gelo;

a cambiare il suono e il tempo; di quello che sentiamo dentro;

a mettere scoperto il cuore, a vedere il giro del sangue dove va davvero; qual è il passaggio dov’è più debole; dove ha chiuso e dove ha aperto il bene e il male, da quale costola si è sciolto e poi si ricompone; diverso e uguale, con quale nome; lo puoi chiamare il cerchio di vele, il fuoco spento, la corolla che adesso siamo diventati.

b. Mauro Ferrari, Vedere al buio, Puntoacapo, 2017.

(versione originale)

Spiegato ai bambini

Lo vedi è solo una città di morti

che qui riposano per visite

sempre più rade e mute,

occhi svaniti agli occhi

per osservare dall’esterno

cosa fosse la memoria,

quando duro il filamento.

Nel silenzio che non tace

– i lumi ormai spenti, i fiori

di plastica che nessuno cambia,

la polvere finale sulle foto –

restiamo qui, smarriti: vivi

che portano fiori a tombe silenziose

tornando a casa a mani vuote.

(riscrittura)

Lo vedi è solo una città di morti; che qui riposano per visite sempre più rade e mute; occhi svaniti agli occhi per osservare dall’esterno cosa fosse la memoria; quando duro il filamento.

Nel silenzio che non tace – i lumi ormai spenti, i fiori di plastica che nessuno cambia; la polvere finale sulle foto – restiamo qui, smarriti: vivi; che portano fiori a tombe silenziose; tornando a casa a mani vuote.

c. Antonio Alleva, Ultime corrispondenze dal villaggio, Il Ponte del Sale, 2016.

(versione originale)

Preghiera in gennaio del suonatore Jones

vorrei poggiare ancora la guancia sulla neve

cantare ancora l’incanto la requie del bianco

e lo sfrullare dei passeri di mollica in mollica di filo in filo,

e l’eco ancora vivida, vivida e spossata, delle luci dell’Avvento.

Vorrei suonare ancora essere ancora io

il flauto in movimento

io l’angelo traviato l’altrove vivente

ancora io a vibrare di strada in strada di portone in portone

di radura in radura

ma ho dovuto chiedere un po’ d’asilo in questa locanda

un po’ di pane anche per me, un po’ di sapone, un po’ di quel caldo buono:

ora supino nella disperata beatitudine delle coltri

ora con gli occhi reclinati nel gran silenzio che esalta

il mormorio del camino, il mormorio delle voci qui sotto qui vicino

ora che sei maestro persino nella tana del nostro disperato paradiso

ti prego lasciami così,

fa’ che non senta mai più il cielo schiacciante delle ali

fa’ che non veda mai più in un vortice di polvere

né la gonna di Jenny, né i balli di tanti anni fa.

(riscrittura)

vorrei poggiare ancora la guancia sulla neve; cantare ancora l’incanto la requie del bianco. E lo sfrullare dei passeri di mollica in mollica di filo in filo; e l’eco ancora vivida, vivida e spossata, delle luci dell’Avvento.

Vorrei suonare ancora essere ancora io il flauto in movimento; io l’angelo traviato l’altrove vivente; ancora io a vibrare di strada in strada di portone in portone; di radura in radura.

Ma ho dovuto chiedere un po’ d’asilo in questa locanda; un po’ di pane anche per me, un po’ di sapone, un po’ di quel caldo buono.

Ora supino nella disperata beatitudine delle coltri; ora con gli occhi reclinati nel gran silenzio che esalta il mormorio del camino, il mormorio delle voci qui sotto qui vicino.

Ora che sei maestro persino nella tana del nostro disperato paradiso ti prego lasciami così; fa’ che non senta mai più il cielo schiacciante delle ali; fa’ che non veda mai più in un vortice di polvere né la gonna di Jenny, né i balli di tanti anni fa.

Eugenio De Signoribus, Trinità dell’esodo, Garzanti 2011

(versione originale)

Visione

a lento passo dietro le finestre

l’uomo deciso chiude le tendine

fuori la falsa luminaria…

è re nel suo regno di spine

solo la parola accetta in visita

e l’acqua e il pane della scrittura

ma essa è già lì, incasata

nella dote pura del pozzo

è pronta a calare laggiù

fin nella zona più oscura

e risalendo lavata

accordare la mano al custode

(riscrittura)

a lento passo dietro le finestre, l’uomo deciso chiude le tendine; fuori la falsa luminaria… è re nel suo regno di spine;

solo la parola accetta in visita, e l’acqua e il pane della scrittura; ma essa è già lì, incasata

nella dote pura del pozzo; è pronta a calare laggiù, fin nella zona più oscura; e risalendo lavata, accordare la mano al custode

4. Un tentativo di sconclusione

Quando si parla di poesia, ogni conclusione è sconclusionata. Ogni tentativo di dire una parola conclusiva è destinato a fallire. Della poesia non si dovrebbe parlare (tuttavia - nella più feroce contraddizione - non possiamo esimerci dal parlarne). La poesia si deve fare. Si deve mostrare. E ciò vale in particolare per la poesia in flusso.

I primi due paragrafi sono vento. Il succo è nella carne del terzo: ipotesi di lavoro. Lavoro. Cimento. Masticazione sonora. Le parole vanno ruminate e ascoltate con cura. Ma poi, alla fine, bisogna fare… sentire… articolare… significati e significanti in un flusso musicale sfuggente… che punti a risuonare nel cavo scuro dell’infinito. Oltre ogni ragionevole speranza: disperata.

Ma ora basta con le parole. Si lasci spazio al flusso; alla voce di qualcuno che parla, grida, si lamenta, dall’alto (o dal basso) della sua specificità; della sua singolarità; della sua irripetibilità. È giunto il tempo del fare, del creare (ποιέω), spazzati da un vento-fiamma, da una corrente che trascina senza sosta: e si direbbe che il riposo le è vietato.

* Un’ultima precisazione (forse) non necessaria:

Anche questo mio scritto in prosa non segue sempre le regole della sintassi. È un saggio e non lo è. Può sembrare un insieme discordante di appunti o un flusso di pensieri. Ma non è poesia in flusso. La poesia in flusso è poesia. Autentica poesia. Non prosa.


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