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Carla Mussi, La poesia non ci appartiene

In seguito all’uscita del volume “Dove va la poesia?”, una stimolante occasione di confronto è stata organizzata a Seregno, grazie a Corrado Bagnoli e al circolo culturale “Seregn de la memoria”.

La mia riflessione, che ho proposto in quella sede, fa riferimento all’intervento sul volume, ma si è arricchita di alcuni spunti su cui mi piacerebbe confrontarmi. Visto che nel volume e nel dibattito successivo molti hanno sottolineato i limiti dei programmi scolastici, i problemi della critica, dell’editoria e della comunicazione della poesia, la mia attenzione, proprio perché è il territorio in cui mi muovo, si è concentrata su un punto essenziale. Il rapporto del poeta con l’atto poetico e con la comunicazione della poesia, ma anche con la lettura della poesia degli altri.

LA POESIA NON CI APPARTIENE

…E lo scheletro sta diventando

luce ho ancora sangue e nervi,

questo viaggio è testardo: è sempre

chiudere il libro e, soli, tentare.

Lucetta Frisa

Da Dove va la poesia

“Credo profondamente che l’atto poetico sia una manifestazione di disadattamento. Purtroppo le scienze sociali hanno conferito a questa parola una connotazione negativa, considerando il disadattamento una malattia da curare. Credo invece che l’incapacità o la volontà di non adattarsi contengano una grande opportunità di vedere oltre gli schemi, i luoghi comuni, le convenzioni. Il disadattamento può travolgere, ma l’adattamento può annientare. In questo senso, credo che questa modalità di “adattamento”, così funzionale alla visibilità, stravolga la natura stessa della poesia, relegandola a un ruolo di “servizio”. Eppure il novecento si è caratterizzato anche soprattutto per poeti e intellettuali che hanno consegnato, attraverso il loro disadattamento (talvolta tragicamente, come nel caso di Pasolini o di Antonia Pozzi, altre volte semplicemente per la loro marginalità nel mondo letterario, come per Sandro Penna o Giorgio Caproni), una chiave di lettura nuova, sia dal punto di vista del linguaggio, sia in termini di “rivelazione” del presente.

Ci sono poi forme di disadattamento apparente della scrittura, che oscillano sulla soglia del compiacimento, proprio perché la ricerca primaria è quella della visibilità. Ma credo comunque che l’atto poetico nasca come manifestazione di disadattamento. Ciò che all’origine si manifesta già come intenzione non è che il servizio da rendere alla nostra visibilità.”

LA POESIA NON CI APPARTIENE

Se la poesia è una manifestazione di disadattamento, l’attivazione dei meccanismi di “visibilità” è il nodo fondamentale attraverso cui passa la comunicazione della poesia. Due processi assolutamente in contrasto tra loro. Proviamo a ricordare nel nostro recente passato, i fenomeni che preparavano inconsapevolmente questo paradosso.

Nel ’79, sulla spiaggia di Castelporziano, si tiene il primo festival internazionale dei poeti. E’ un momento storico particolare, di grande contestazione del sistema, spesso segnata da violenza, ma anche da diffuse espressioni creative. Alla manifestazione, ideata da Franco Cordelli e Simone Carella, partecipano poeti da tutto il mondo. (Evtusenko, Ginsberg, Bellezza, Viviani, Corso, Rosselli, Spaziani, Ferlinghetti, Pivano, Zeichen, Risset, Burroughs, Pleynet, Fried, Soriano, Conte, De Angelis, Cucchi, Piromalli...).

Sulla spiaggia, centinaia di persone, partecipano alla manifestazione. Molti giovani contestano, salgono sul palco, rubano i microfoni urlando frasi frantumate, qualcuno si spoglia e tutti cercano il primato della propria visibilità, togliendo la parola ai poeti, gridando frasi sconnesse, contestando ogni tipo di regola circa la organizzazione dell’evento. Alla fine salgono in troppi sul palco e il palco crolla sulla spiaggia.

Da questa distanza, si intravedono i segni di quello che esploderà molti anni dopo. Oggi, quelli che scrivono sono molti, e non c’è neanche più bisogno di rubare il microfono. I social e la rete, nella loro apparente democrazia, hanno reso possibile l’accesso al palcoscenico a chiunque. Tutto appare sullo stesso livello, tutti possono esprimersi e ricevere “like” senza sapere nulla dell’argomento di cui stanno parlando. L’importante è esserci. Il palco dei social non crolla, non contiene che rischi residuali, niente in confronto al rischio di non essere visti, sovverte la proporzione tra chi vi sale e chi sta sotto, che a sua volta si affretta ad applaudire per tutelare i propri“like” futuri.

Il palco crollato sulla sabbia a Castelporziano nel ‘79 è stato spesso letto come un segno della disfatta della poesia nel suo rapporto con il pubblico (rapporto costruito e dibattuto attraverso “Il pubblico della poesia” di Berardinelli-Cordelli ) e come il segno di un ripiegamento della poesia su se stessa. Io credo che il nucleo di quel crollo sia invece il primo segnale della ricerca di una visibilità a tutti i costi, di un protagonismo vuoto, dove bisogna esserci senza necessariamente avere qualcosa da dire, di un certo trionfo dell’opinione e dell’esternazione, che sono pratiche a costo zero, sulla ricerca intellettuale e interiore, l’approfondimento, la fatica di cui si nutre l’atto poetico.

E’ nella natura stessa della poesia, una sorta di rifiuto di istituzionalizzazione. Ma oggi credo che siano poche anche quelle realtà di luoghi diffusi dove la poesia si sviluppa fuori dagli schemi, proprio per la pervasività del bisogno di visibilità immediata scandita dalla presenza in rete e sui social. La sua spettacolarizzazione estrema, ancora più evidente in molti poetry-slam, ma non solo, di fatto la “istituzionalizza” sulla base del gradimento immediato. Se è vero che L’Università si occupa poco o niente di poesia contemporanea, è anche vero che questo ruolo viene esercitato spesso in qualche salotto, dove contano più gli scambi di accoglienza della critica, che la passione per la poesia. Permangono qua e là tracce di resistenza, alcuni nuclei di persone che lavorano autenticamente intorno alla poesia e ai temi che ci sollecita, ma ciò che un tempo si muoveva sottotraccia, un certo underground talvolta stimolante, altre volte meno ma comunque vitale, non esiste più, fagocitato dalla visibilità e dal gradimento sui social.

Del resto, ormai da tempo, l’unico caso in cui il poeta diventa “visibile” è quello in cui diventa “personaggio”. E’ il caso di Alda Merini, che ha scritto alcune cose di valore, altre meno, ma che è stata prima dimenticata negli anni del manicomio, e poi osannata perché “personaggio”. In questo paradosso, lo smarrimento della memoria gioca un ruolo essenziale. Avere a disposizione questa enorme possibilità di archiviazione attraverso internet, ci illude che non siano più così necessari l’approfondimento, la conoscenza, la memoria. Come scrive Roberto Chiapparoli in “Dove va poesia?”, ci sentiamo immersi nel “diritto di non ricordare”. Tutto è accessibile, possiamo vivere questo eterno presente di conferme immediate, che è una dimensione totalmente slegata dall’atto poetico, dalla sua solitudine, dal bisogno di sedimentazione che la poesia contiene.

La critica, del resto, ha perfino rinunciato a categorizzare ( cosa non sempre interessante, per carità), sulla base della poetica o delle scelte stilistiche, o dei temi. Si parla de “i poeti nati dopo il primo gennaio 1970”,“i poeti nati dopo gli anni ottanta”. Ora, è possibile che non esistano più dei poeti di valore, ma certo non si può dire che la critica più ospitata nella grande editoria, brilli per audacia di indagine.

Recenti antologie, anche di valore, che ripropongono la storia letteraria del novecento, offrono un panorama che , per rinnovarsi, sa solo aggiungere qualche nome , ma in totale assenza di analisi e di decifrazione storico-letteraria, quasi che nell’ultima parte del novecento non fossero più percorribili nuove interpretazioni e nuove chiavi di lettura.

Dunque abbiamo a che fare con un magma multiforme di autopromozione e comunicazione social,

favorito anche dalla debolezza di un pensiero critico originale e esplorativo che sappia o voglia selezionare.

Sono partita da quel palco che si sgretolava nel ‘79 a Castelporziano, che lancia le sue schegge fino a noi.

“E in questo accadere una mostruosa/ distruzione si compie, pur splendendo di gioia”, scrive Pasolini in “La Religione del mio tempo” . Una mostruosa distruzione.

Credo che i poeti per primi dovrebbero interrogarsi su come vivere il loro rapporto con la poesia e la comunicazione della poesia. Affacciarsi su questo abisso , può contenere anche la rinuncia alla

poesia e alla letteratura, cosa di cui si è già parlato molto, a cominciare da Emil Cioran (“La tentazione di esistere”).

All’inizio del secolo scorso, Hugo von Hofmansthal , scrive nella “Lettera di Lord Chandos” la sua personale rinuncia alla letteratura. Il riferimento più illuminante è quello che ci racconta la follia dell’oratore romano Crasso, colto improvvisamente e travolto da una passione insensata. Crasso è ossessionato dalla cura per una murena, un pesce della sua peschiera “dagli occhi rossi, ottuso e muto”, e diventa per questo la favola della città. Non è importante il fatto che dopo la morte della murena, Crasso, prostrato dal dolore, si riscatti con sagaci risposte a chi lo derideva.

Quello che conta è il vuoto di quello sguardo della murena, in cui Crasso avvertiva l’inesprimibile.

La poesia corre su questo filo, tra il senso dell’indicibile e la tentazione di dire.

La visibilità prevede intenzione, l’atto poetico no. Nasce dall’inesprimibile anche come estremo tentativo di “ordinare” ciò che non è codificabile, fa leva su un nucleo originario di rivelazione che solo la sedimentazione può consegnare, entra nelle oscurità delle parole, illumina a tratti il fondo di uno scavo, decifra dai frammenti la forma.

I poeti dovrebbero tenere vivo il luogo del rapporto originario con la parola scritta, perché la poesia non si governa, non tollera intenzioni, annuncia il suo bisogno di sedimentazione già alla prima misteriosa lettura. La poesia non ci appartiene.

Alla poesia si può solo appartenere completamente.


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