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Edoardo Penoncini, Sguardi sulla poesia di Daniela Raimondi

Chi legge fa vivere un testo, lo realizza, mettendosi così in comunicazione con l'altro, con una diversità. Nel leggere è implicita la disponibilità ad ascoltare, a entrare in relazione, a non prevaricare l'altro con la propria individualità. Esiste dunque un'etica della lettura, che è fatta di filologia e passione, capacità di intendere e disponibilità a mettersi in gioco. (Ezio Raimondi)

La poesia di Daniela Raimondi non è un quadro statico, ha bisogno di movimento come il sangue che scorre dentro, così le parole, i versi mai misurati che convogliano in suoni, gorgoglii che stappano gl’intasi e ti buttano nel mare con la sola forza delle braccia per non essere sopraffatti; una umanità che emerge dal , ma che contiene il tutto (eros e psiche).

Una scrittura che, penso, percepisce e coglie il limite della declinazione poetica, si sente liberata: «Esiste un punto chiaro e perfetto dove è possibile riconciliare ciò che sembrava inconciliabile: il dolore e la bellezza. Quel punto preciso e lontanis­simo, semplice eppure costantemente in fuga, è dove risiede la poesia. Scrittura che diventa rito personale e funzione sacra e creatrice. Poesia come ricerca del linguaggio, come luce salvatrice e unica assoluzione possibile. Una forma di pelle­grinaggio...» (Daniela Raimondi, Tutte le poesie, I, by Amazon 2017, p. 3)

La cifra stilistica della poesia della Raimondi sta nel senso di appartenenza e di condivisione dell’universo femminile, nella carnalità del dolore che esprime con una pregnanza e una crudezza di forte impatto emotivo. La donna sta al centro del­la sua poesia, la donna di ieri, come quella di oggi, dea oppure umana, donatrice di vita o donatrice di morte (s’accabbadora), figlia o madre, la donna che si con­suma fino al suicidio, che sia quello di Silvia Plath, di Alfonsina Storni o di Assia Wevill (Mitologie private, pp. 19-23; La regina di Ica, pp. 40-1, 45-9). Una continuità te­matica che fa della Raimondi una delle voci poetiche al femminile[1], e non solo, più alte della poesia italiana; certo è forte l’impatto con il mondo poetico anglosas­sone e ispanoamericano, ma quello che colpisce è la varietà del timbro nello sviscera­re il mondo della liquidità e carnalità, parole pregnanti che corrono e ricor­rono nei versi della Raimondi e prendono, e rimandano a tutta la sua opera.

La donna che cerca e ricerca le origini: «Correre fuori dal tempo./ ... / Voglio sa­pere del sangue/ che mi scorreva dentro prima di esistere./ Molto prima,/ alla radice del tempo» (Ellissi, p. 30), la donna che vuole sentirsi nelle altre donne, quelle del mito (Inanna la dea sumera della bellezza e della fecondità, dei testi sacri Eva, Ma­ria, la moglie di Lot, Salomè), nella letteratura (Penelope), della letteratura (An­na Achmatova, Marguerite Duras), nelle «madri di dolore» come Rosa Silva cilena seviziata e uccisa durante la dittatura di Pinochet, nelle donne di cui «cono­sco solo gli occhi» letti al Museo della guerra a Ho Chi Min City e delle mogli come nella superba Il piede (Inanna, p. 44), in cui l’amante è «il fiume in piena/ dove entra fino alla vita» mentre «Io sono il piede secco e freddo/ che qualche volta lo sfiora nel letto», «Un pezzo di carne staccato dal corpo,/ rimosso dal sin­ghiozzo del cuore» è invece la moglie.

Temi che dalle prime due raccolte si snodano, articolano e disarticolano nelle suc­cessive nove, allargandosi a onda e trovando ulteriore cornice nel tema della luce e della famiglia, dal riconoscimento dell’essere figlia durante l’agonia del padre (Avernus) alle origini del nucleo nella raccolta La stanza in cima alle scale, e le fotografie che accompagnano alcuni testi (Antenata, p. 44) ne sono una rivela­zione: «scopro sul tuo viso la mia bocca/ negli occhi, lo stesso nodo di tristezza». È una ricerca dell’umano nell’umano la recente I fuochi di Manikàrnica, dove Primo eso­do fa da prologo alle tre sezioni e Mare nostrum che ne costituisce l’epilogo marca­no la cifra profonda di una poesia civile sempre presente nei versi di Daniela Rai­mondi, ma qui stesi ad ampio spettro d’irradiazione.

Luce è il quadrante entro il quale si possono inserire i versi a forte impronta pa­ratattica, quasi a volerne marcare ad ogni verso la rilevanza. Spesso si afferma che una buona poesia richiede una chiusura forte, qui la forza la si ritrova a ogni verso e il suo è un correre che a volte sta in bilico tra poesia e prosa, ma anche lo stile è un elemento identitario della poeta.

Luce che costella il percorso creativo, luce divina e luce pagana, in una contrap­po­si­zione a un buio che non è mai totale, vi è sempre un bagliore, una fioca stella per guar­dare avanti, la «Poesia come ricerca del linguaggio, come luce salvatrice e unica assoluzione possibile. Una forma di pellegrinaggio», si è già riportato sopra.

In Ellissi è il taumaturgo andante montaliano: «Ricordare le ragazze che fummo,/ scorda­re tutto quello che non siamo» (p. 14), «non sappiamo altro di noi (p. 23), «Dimentica­re chi siamo stati./ Dimenticare chi siamo» per approdare a «Solo il corpo ricorda/ mentre nasciamo dalla profondità dei sogni./ Solo un guizzo di vita. Un presagio luminoso/ per tornare a una trasparenza di placenta, al buio luminoso della notte» (p. 31). In Inanna è il Nuovo apprendimento della felicità dove la luce è il futuro: «I nostri figli saranno una flotta di passeri,/ uno stormo di piccole grida nella diaspora/ ... / La sera uno sciame di luci sfocerà nelle strade» (p. 89).

In Diario della luce l’emozione è ricerca di uno spiraglio, è il fiume carsico che cerca e vuole la luce, luce come bene, luce come apertura, luce come vita: «La vita con il pane, con un poco di bene,/ è solo a questo che crediamo:/ al ruotare magico del tempo/ alla raccolta dell’acqua/, alla fede terrena del seme.» (Mattino, p. 9); «Que­sto tiepido inverno/ ha salvato i gerani del giardino,/ stamane il sole ha sorpreso i prati molli / ... / L’estate arriverà di nuovo/ nello stupore intatto del­l’infanzia» (Risveglio, ibidem, p. 11); «Domani sarà la spremitura,/ la luce di urne colme./ La purezza dell’olio/ che cade/ nel buio di novembre» (ibidem, p. 29), fino all’ultima lirica della raccolta: «Quando arriva la sera/ ... / La casa si accende:/ è una piccola luce nel nero dei campi./ Le finestre splendono. Il fuoco scintilla / ... / La sera è piena di canti. L’aria è limpida, lucente come uno smalto» (Sera, p. 31).

Ne La regina di Ica la luce, quella primigenia, ritorna con la bellissima Preghiera che apre la raccolta e con essa tornano il bene e i grandi temi della poetica raimon­diana delle raccolte precedenti:


Dio, regalami una morte bella,

qualcosa lieve come neve sul viso.

Schiudimi nel corpo la tua spada e il canto.

Lasciami al dominio notturno degli uccelli,

al volo leggerissimo della prima luce.

Lasciami disposta al bene

profumo di bosco, piccoli campanelli

a suonare fra le dita.

Così lontana, così felice

senza più nutrimento o sete.

Fiera come un rapace,

bella come una bimba che sogna:

le guance rosse,

il corpo disteso nella grande radura.


Luce, una contraddizione in una raccolta la cui prima sezione è La città dei morti? Si tratta della necropoli peruviana di Chauchilla dove sono conservate a cielo aper­to dodici mummie, originariamente interrate composte in posizione fetale con il corpo orientato verso est (nascita del sole) e nella visione religiosa andina indicava la rinascita dopo la morte, la resurrezione come superamento del dolore, proprio come la poesia che dona luce e i «suoni tranquilli del mattino».

Resurrezione dopo la malattia, resurrezione attraverso la gravidanza, ma anche per­ché «siamo la morte, ma con la morte anche la nostra resurrezione» (La regina di Ica, p. 55). E ha un bel dire «so che non ci sarà resurrezione» nella successiva rac­colta dedicata al padre, un’affermazione che si scontra con la richiesta pagana di un sonno lieve, la donna che accompagna quel padre (Avernus, p. 40) che «solo una volta mi hai detto che mi volevi bene» nell’ultimo tratto terreno e «so che non ci sarà resurre­zione», e si confronta questa consapevolezza con la richiesta pagana di un sonno lieve a una Madre (pagana?) che offra il suo capezzolo bruno e la sua ghian­dola del latte affinché «lui sia tra i salvati/ e gli siano compagni una ciotola d’acqua/ un pugno di frumento, la coperta di lana [simboli certi della sopravvi­ven­za]/ ... / che lo abiti la luce» e sia accolto da «un eterno sigillo di pace» (ibidem).

Una poesia che dipinge affreschi del dolore, tessere che danno un racconto e racco­glie aria attraverso una scrittura che scivola dal verso alla prosa, che si alimenta spes­so di un titolo-esergo per «riportare alla luce mappe del passato, pezzi di memoria,/ l’eco di una voce. E scrivere./ Scrivere per non dimenticare mai le cose belle» (Avernus, p. 53), per non dimenticare il sogno.

Eppure quella luce si perde di fronte al mistero di una morte voluta da un dio, «ma quale dio, quale uomo/ può chiedermi il sangue di un figlio?/ Non esiste obbedien­za, non esiste perdono./ Lo hanno ucciso» (Maria di Nazareth, p. 44) e resta la rab­bia, la maledizione di «quel sole che ostinato nasce ancora il mattino/ e illumina i vivi, le mamme pazze d’amore» (Maria di Nazareth, p. 45). E Maria incarna nella storia tutte le madri di dolore quelle cilene e argentine, quelle di Gaza e quelle in­cenerite ad Auschwitz. La luce qui è uno squarcio emotivo, la ribellione a un creatore (non a caso riportato con la minuscola iniziale), ribellione come afferma­zione di carne e sangue: «Non mi chiamate e non mi cercate/ ... / Ricordate mio fi­glio per quello che era/ e per quello che ha fatto./ Uomo o dio poco importa»; ri­bellione come rinuncia al ruolo assegnato: «non chiamatemi Dea, Regina, o Si­gno­ra» (qui con la maiuscola iniziale) ribellione quasi iconoclasta contro l’icona su­gli altari di legno intarsiato e oro, contro le processioni «perché io non fui mai co­sì bella/ ma ero fatta di carne, e dolore, e pietà/ ... / sono la madre dell’uomo che uccisero», ribellione come oblìo: «Voglio andare senza strascichi e canti/ per gri­da­re il suo nome,/ trascinando per strade e per piazze/ soltanto il mio male».

Scrittura femminile (écriture féminine), poneva l’attenzione Erminia Passannanti nella Introduzione a Inanna con rinvio ai lavori della Irigaray e della Cixous, certa­mente, ma anche ricerca, ricerca di «quel punto chiaro e perfetto» dove si riconci­liano dolore e bellezza, «quel punto dove risiede la poesia. Scrittura che diventa rito personale, funzione sacra e creatrice... Poesia come ricerca di linguaggio, co­me luce salvatrice e unica assoluzione possibile», scrive la Raimondi introducendo il primo volume di Tutte le poesie del 2017.

Se la poesia è luce salvatrice, non sono più il dolore, la solitudine, l’assenza, il vuo­to, la notte, la morte i luoghi della paura: «Da bambina baciavo la fronte grigia dei morti./ L’importante è che avessero gli occhi chiusi,/ le narici immobili, poi non avevo paura» (La stanza in cima alle scale, p. 18). Non avere paura significa (come nella poesia che dà il titolo alla raccolta, La stanza in cima alle scale, p. 30) salire un mattino fino a quella stanza dove sul pavimento vi erano i segni lasciati uno per uno fino alla camera da letto per vedere nella penombra i corpi degli aman­ti brillare nel letto, e muovere desideri come fanno spesso i fanciulli: «anch’io, da grande,/ volevo qualcuno che mi tenesse sulle ginocchia,/ ricevere piccoli pezzi di pane dalle dita di un uomo./ Volevo ridere come faceva la Diana/ e il mattino splen­dere come lei sulle lenzuola./ Sognare cose belle,/ non uscire mai da quella stan­za». È questa la luce che corre nella poesia di Daniela Raimondi, i versi corrono verso un orizzonte e dànno la religione della vita, perché la vita, di là dai sogni, è più agra che piacevole, ma non è mai completamente buia, di là dal dolore come in L’incidente (p. 46), la corsa del padre («la bestia impaurita, appena scampata al coltello») in ospedale, «lui aveva visto le lamiere contorte» e finalmente attraverso la fessura della porta vede viva la figlia sulla barella: «Fece un cenno di saluto con la mano./ Sorrideva. Forse aveva negli occhi/ la stessa sorpresa/ del mattino quan­do era nata». Rinascita e ricomposizione con quel padre che «solo una volta mi hai detto che mi volevi bene» (Avernus, p. 48), inversione dei ruoli dettati dal tempo, il tempo che segna e ci rimpicciolisce: «Ora che sei vecchia/ e l’aria intorno a te già inizia a macerare,/ sono io a farti da madre e tu diventi piccola, mi diventi fi­glia» (La stanza in cima alle scale, p. 60).

La raccolta della Raimondi è il recupero della memoria famigliare[2], figure del borgo, racconti sentiti e resi vivi, perché c’è sempre qualcosa di irrisolto nella nostra memoria e noi, lettori, non sapremo mai quali erano i ritorni alla vita at­traverso la penna della Raimondi, come quelle piccole storie di paese nell’ultima se­zione de La stanza in cima alle scale, storie di ordinaria quotidianità: l’incesto, il contrabbando, la salvezza eterna astenendosi dal sesso, il marito sgozzato per timore di restare incinta, l’aspirante suicida che “imprigiona” il marito ossessionato da qualche altro colpo di testa della moglie e dalla vergogna.

Restano storie di paese dove sbocciano solo i fiori della «seconda metà della vita», ma trovano un foglio bianco (come la luce) dove rivivere perché tutti restino legati al mondo e abbiano “una morte più bella”.

L’ultima silloge, I fuochi di Manikárnica, abbracciano tutti i temi della poetica raimondiana, ma la luce fulcro, i “Fuochi” sono luce che incenerisce, ma non distrugge, anzi «colui che viene cremato a Manikárnica viene assolto da tutti i peccati. Sfugge così il karma delle reincarnazioni ottenendo automaticamente lo stato di Nirvana, l’eterna liberazione dal corpo che si fonde con il creatore e l’intero cosmo» (nota 11, p. 92).

Seguire il filo della luce anche in questa raccolta, mi pare rafforzi la libertà del lettore. Così, sfogliando qui e là la raccolta, sezione per sezione, il tema luce emerge con evidenza dal “ringraziamento” (p. 26) alla divinità «per la luce del mattino... per il sole e per le stelle che galleggiano nel buio», da Preghiera (p. 51) dove i «poeti cantano il sole», da Prajapati (p. 51-2), Signore delle creature, che «Alzò le braccia/ e la luce scese dalle sue ascelle,/ e la luce formò gli astri/ e dagli astri nacquero le stelle», ma non bastò! Prajapati generò Agni (p. 55), dio della luce, sole e fuoco. Non solo però luce generatrice, anche luce che si spegne, quella inseguita dai migranti su un mare che non appartiene a nessuno, che «Va dove vuole andare./ Di qua e di là ci nasce e muore il sole» (p. 87).

Il lettore sta sempre di là, ma leggere Daniela Raimondi, come tutti i veri poeti, richiede la tessitura di un filo per entrare in relazione e far diventare la lettura dialogo. Al lettore manca l’interlocutore in presenza e l’assenza segna la «verità del limite», perché la poesia non è de­finibile, perché «nessuno ha mai saputo precisare la specificità della poesia... per­ché la caratteristica più autentica, che fa della poesia una lingua assolutamente par­ticolare, ... è inafferrabile. Ma è certo che si tratta di un vuoto, di un limite oltre il quale non si può andare... la poesia segna un limite alle capacità umane, ai poteri umani. A questo punto: o si accetta questa condizione, limitata, e allora si può scri­vere e leggere poesia, oppure, se la si nega, non si può scrivere e nemmeno leggere poesia».

Coltivare l’assenza, cercare un percorso per entrare in relazione con l’autore, evi­tare di fermarsi all’usura dell’emozione (della scrittura e della lettura) è questo che richiede la poesia di Daniela Raimondi, una lingua navigante «fino agli estremi del­l’esperienza e della conoscenza»[3], là dove la poesia non “è finita” e vive.

[1] Ellissi, Edizioni Raffaelli, Rimini 2005; Inanna, Faenza (RA), Edizioni Mobydick 2006; Mi­tologie Private, Massa, Edizioni Clandestine 2007; Entierro - Monologo in versi, Faenza (RA), Edizioni Moby­dick 2009; Diario della Luce, Faenza (RA), Edizioni Mobydick 2011; La regina di Ica, Edizioni Il Ponte del Sale, Rovigo 2012; Selected Poems, New York, Gradiva Editions 2013; Aver­nus, Piateda-SO, CFR Edizioni 2014; Maria Di Nazareth, Pastura­na-AL, Edizioni Puntoacapo 2015; La stanza in cima alla Scale, Nino Aragno Editore, Torino 2018; I fuochi di Manikàrnica, Pastura (AL), Edizioni Puntoacapo 2019. [2] Nell’inventio narrativa anche il recentissimo romanzo, La casa sull’argine. La saga della famiglia Casadio, Casa Editrice Nord, 2020, è il ritorno ai luoghi degli avi materni. [3] Le citazioni sono da C. Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che..., il melan­golo, Genova 2018, pp. 9-11, 72.


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