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Giovanni Merloni: L’opera poetica di Loris Maria Marchetti

Latitudini fluttuanti sotto il cielo di Torino


I


«Il sole a perpendicolo

Sulla terrazza della nonna,

infiltrato nel corpo e nella mente

da latitudini fluttuanti.»

“Doppia biografia” in “Stazioni di posta” (2007), pag. 128


In quest’epoca di cupa banalità, aggravata dagli “effetti speciali” di una letteratura sempre più conformista (e consenziente), “Latitudini fluttuanti” di Loris Maria Marchetti (Puntoacapo, 2019) ha interrotto la monotonia dei miei orizzonti, facendomi ritrovare l’entusiasmo e la fiducia in valori umani ed estetici — come l’amicizia e il desiderio di comunicare liberamente i propri slanci e le proprie idiosincrasie — che ultimamente si stavano un po’ sgretolando davanti ai miei occhi.

Questa vibrante e appassionante antologia di versi riaffioranti dai numerosi “passati” dell’Autore, a modo loro omogenei e coerenti, mi ha riportato l’Italia dei paesaggi e dei cieli movimentati ma anche, soprattutto, l’Italia — che forse non c’è più — che scopre in sé una grande e profonda saggezza nel comprendere la vita e venire a patti con essa. Un “paesaggio” filtrato dall’esperienza di un uomo sensibile che rivive la Storia che lo ha colpito o soltanto sfiorato come un fatto intimo che a stento si può raccontare. Come in questi versi sottilmente paradossali che mi ricordano Dino Buzzati o anche Mikhail Bulgakov:


«…negli anni della più nera oscurità demente

sul mondo e dentro i ventri

(non ero ancora stato concepito)

passavano lasciando ricordi incancellabili

e il rombo s’udiva appressarsi da lontano

(mi dissero le zie)

e dopo il suo passaggio fragoroso e i sibili

altri boati esplodevano e grida disumane e sangue e morte

questo rombo, questo rombo ostinato

forse sono i Dodge dei Liberatori going home

costeggiando la riva di un Po trasecolato là in corso Casale

questo rombo suona più confidenziale

anche se è inverosimile riudirlo questa sera

negli interstizi di un salotto inerme

che si abbandona a un sonno fuori tempo,

senza tempo…»

“Concerto domestico”, in “Concerto domestico” (2002) pag. 114


Quasi tutti i commentatori di questo bellissimo volume hanno messo in rilievo la straordinaria vena ironica dell’Autore, che farebbe da apripista nell’impresa, ogni volta coronata dal successo, di distillare l’atto difficilissimo della parola. Grazie al “filtro” del décalage ironico, ognuna delle poesie ivi selezionate si configurerebbe dunque come un avvenimento ma anche come un “non avvenimento”, prestandosi così ad almeno due letture: quella disincantata (e leggera) e quella seria (e profonda).


«…io veramente sono qui per altro

non credo mi si possa aiutare

è per ragioni diverse

di questo non so proprio che farmene

lasciatemi cercare da solo

ma tutto mi pare spostato e capovolto

deve essere un po’ più in là o nei pressi

no questo no niente insistenze

un momento non ricordo bene

perché sono qui ah già ecco

dubito che sia qui quello che cerco

peccato credevo fosse qui

forse ho sbagliato posto

non credo ripasserò è molto tardi

non posso perdere altro tempo…»

“En passant”, in “Il prisma e la fenice” (1977), pag. 13.


È tutto vero, ma io credo che ci sia qualcosa di più. Per cominciare non vedo artifici né scorciatoie nella assoluta sincerità e forza narrativa di Marchetti: l’ironia stessa fa talmente parte della sua indole e direi della sua esistenza, che non può essere evocata come l’unico elemento decisivo del suo essere un vero poeta: il carisma intrinseco alla sua opera viene soprattutto dal coraggio che l’aiuta a vincere dubbi e reticenze:


«E lei c’entra e non c’entra

è tutto questo e nulla

è un’ignota ragazza fascinosa

che mi ha innamorato senza scampo

in un giorno qualunque

di un giugno senza storia. »

“Di un giugno senza storia”, in “Le ire inferme” (1989) pagg. 58-59


per andare poi decisamente incontro alla “necessità” di esprimere la tragica bellezza della vita:


«…il timore di averti quasi passa il timore di perderti

perché il rischio di perderti senza averti avuta

è più atroce del pensiero della morte. »

“Traversata III”, in “La via delle Ortensie” (1981), pag. 42


Condivido anch’io l’amore per la musica e per il teatro musicale che si impongono in numerosi passaggi del “racconto intimo” di Marchetti. Mi basta dunque vedere evocata Pamina, o Tamino, o Papageno o don Giovanni o Cherubino per seguire ancora più da vicino e comprendere più a fondo il senso delle sue riflessioni. E credo di non sbagliare affermando che nelle sue poesie la musica, come i paesaggi, le architetture, i luoghi e i non luoghi sono molto più che semplici “décors” o “colonne sonore” o “planches” di un palcoscenico immaginario: essi sono dei veri e propri interlocutori che interagiscono con l’io narrante dialetticamente e profondamente.


«Ho lasciato un lago e un blues.

Una canzone

sfiorata ma non posseduta, un fondo colmo

di risate e amarezze.

M’insegue un ricordo incancellabile.

Lamento fievole, rimpianto

d’inutilità. »

“Blues”, in “Il prisma e la fenice” (1977), pag. 14


«Lancinante e beatifica

Come una melodia di Schubert

Sarà così la morte?»

“Sarà così…?” in “Mercante ingenuo” (1994), pag. 98


Essendo coetaneo del Poeta, mi è stato particolarmente facile — nella cronologia degli anni in cui le sue raccolte di versi furono via via pubblicate — proiettarvi le mie esperienze parallele e mi sembra di avere ritrovato, oltre alle molte affinità generazionali, una analoga percezione del mondo esterno, pullulante di “altri” di cui abbiamo o avremmo bisogno ma anche denso di “altri” di cui non sappiamo proprio che farcene.

Un mondo esterno che a priori non è pronto a cogliere l’essenza del racconto poetico perché non vi conosce che due alternative: quella della immedesimazione nell’autore o quella di una netta, sterile presa di distanza. Distanza che, intimamente, è ricambiata:


«…le cose che vorrei dire

e che non dico e non dirò

perché quelli a cui vorrei dirle

o dovrei

non sono più qui ad ascoltarle.»

“Quelli”, in “Stazioni di posta” (2007) pag. 130


Ma l’opera di Marchetti è lì per provare che esiste una terza via.

Innanzitutto, pur non essendo indifferente al fascino delle parole, la poesia di Marchetti non è fine a sé stessa, né mai si compiace delle sue virtù. L’Autore non nasconde, tra l’altro, durante la visita al Vittoriale, la sua ammirazione — soprattutto o soltanto letteraria — che senz’altro merita il Vate sciagurato,


«…mi domando

che cosa sia di te che mi incatena:

all’incirca lo stesso che eccitava

il Poeta, ma assai più scaltro lui

a mistificare con i suoi

giochi spruzzati di sublime…

Ed insiste la pioggia sopra me

viandante ingenuo ed erudito

sulle orme di fasti scoloranti,

quando l’unico gesto un po’ sensato —

senza gli orpelli lustri di retorica

per altro prodigiosa sulla carta —

ti dovrebbe serrare in una stanza…»

“Maggio a Gardone”in “Il prisma e la fenice” (1977) pagg. 29-30


ma poi la sua predilezione per Eugenio Montale è netta ed evidente.

Sennonché Marchetti appartiene a una generazione che, nonostante tutte le urgenze espressive e gli indubbi talenti, “non si piglia sul serio”. Come fare allora a coniugare la necessità di “raccontare il nostro tempo” con questa vocina nascosta che vorrebbe incitarci a desistere? Sta qui la grande innovazione che per il poeta torinese è l’uovo di Colombo: raccontare, sfrondare la lingua di tutti i possibili orpelli, accettare di essere l’attore e il testimone intransigente di un lungo viaggio nella vita (dove lo stupore si fa esperienza e l’esperienza non dimentica l’importanza dello stupore):


«Spero nelle nuvole

che alla fine riescano a coprire

questo sole accecante e incendiario,

che ne velino la violenza

ma senza offuscarlo del tutto

lasciando che a tratti trapelino

ancora raggi e calore ma privi

di arroganza brutale e indecente misura.

Spero nelle nuvole,

nella vittoriosa affermazione

del loro naturale sacrificio.»

Auspicio, in “Suite delle tenebre e del mare” (2016), pag. 178.




II

Dopo “Latitudini fluttuanti”, ho avuto il grandissimo piacere di leggere “Le incognite dell’anima”, che rendono ancora più ricca, vasta e suggestiva quell’antologia di riferimento.

In alcune poesie, che si offrono al lettore come frammenti o spezzoni della vita risuscitata dal pensiero, si coglie il “dramma della diversità” che porta con sé il bisogno del Poeta di spiegare, indirettamente, al lettore invisibile (e a se stesso), che la poesia nasce dalla sofferenza, laddove la sofferenza non deriva soltanto dalla sua natura di “écorché vif”, ma anche dal cronico malessere che provocano in lui la grossolanità, l’indifferenza e il cinismo di quella (crescente) fetta di genere umano che nega, più o meno consapevolmente, la dignità dell’anima e ne combatte la libera espressione:


«Che Persefone ormai preferisca

soggiornare nell’Ade in perpetuo

relegando sconfitta gli umani

alla loro barbarie inestinguibile?»

“Dubbi su Persefone” in “Perdono” (2016-2019) pag. 97


Come un folletto notturno riparatore dei danni — alla convivenza civile, alla cultura e anche, soprattutto, al côté “estetico” dell’esistenza — inflitti da questa umanità a dir poco egoista (spesso complice, tra l’altro, di delinquenti e assassini), il Poeta lavora nell’ombra per ridare alle parole un senso e alle immagini una storia.


«Ieri in sogno mio padre mi ha cercato,

mi ha chiesto se trovavo un’ora per andare

al ristorante, una domenica, con lui.

Alle undici e mezzo di domenica

prossima, gli dissi, e rise perché sa

che di solito mangio molto tardi.

Voleva stare, credo, un poco insieme a me

perché c’è sempre troppa gente a pranzo

in quella villa e non si ha mai

un momento di pace. »

“Appuntamento”, in “Il prisma e la fenice” (1977) pag. 16


Anche la forma della poesia di Marchetti — che nasce da una prosa disadorna, disincantata e a volte volutamente maldestra, che costringe il lettore a “pensare sognando” — concorre a questo “orgoglioso e umile” atto di sviscerare alias sbrogliare la matassa dei ricordi, dei pensieri e dei sogni che riconducono, tutti, alla “confessione” della sua diversità.


«Quel che non vuole darmi

continuo a chiederglielo con insistenza

e ciò che vorrebbe gli chiedessi

continuo a ignorarlo puntualmente.

Neppure io so spiegarmi

la mia forsennata ostinazione.»

“Neppure io” in “Perdono” (2016-2019) pag. 111


Come dice Rousseau nelle sue rêveries : « Le plus sociable et le plus aimant des humains en a été proscrit par un accord unanime. Ils ont cherché dans les raffinements de leur haine quel tourment pouvait être le plus cruel à mon âme sensible, et ils ont brisé violemment tous les liens qui m’attachaient à eux. J’aurais aimé les hommes en dépit d’eux-mêmes. Ils n’ont pu qu’en cessant de l’être se dérober à mon affection... »

Evidentemente, in particolare per la nostra generazione che ha vissuto il grande “equivoco liberatore” del ‘68, le conflittualità che dobbiamo sopportare per difendere la nostra diversità di esseri sensibili e tendenzialmente saggi non sono proprio le stesse che dilaniarono Rousseau fino al punto di fargli credere che nessuno avrebbe mai letto le sue ultime confessioni (e le sue salvifiche rêveries). Ma anche per Marchetti non c’è altra strada che quella della confessione e del perdono:


«...e tu perdona a me

perché so quel che faccio

e non posso, o non so,

non farlo.»

“Perdono” in ““Perdono” (2016-2019) pag. 118


La tragedia dell’incomprensione resta comunque pesante e diventa schiacciante quando ad essa si aggiunge la tragedia del “temps révolu”: quello, soprattutto, dell’infanzia onnipotente e carezzata dagli affetti. Un “luogo” che riaffiora nitido, a sprazzi: certo della sua esistenza e vitalità, il Poeta non si stanca di ricercarne le prove inconfutabili e, allo stesso tempo, si dispera perché questo mondo finirà con lui nell’indifferenza generale. Come succede alle “trottole”, che


«ferme attendono l’occhio sagace

che le sappia stimare con amore...»

“Nove” in “Perdono” (2016-2019)pag. 114


Altrettanto pungente e doloroso, per Loris Maria Marchetti, è il “temps révolu de l’insouciance”, talvolta intriso di violenta sofferenza, caratteristico degli anni dell’amore. Credo non sia un caso che la prima collezione dell’Autore, “Il prisma e la fenice” — citata nella postfazione di Mario Marchisio come una fase poetica molto significativa nel suo percorso — sia stata pubblicata nel 1977 (anno quanto mai critico e nevralgico per la nostra generazione e per il nostro Paese), si direbbe a conclusione di una fase di vita particolarmente tormentata (era forse l’ora di “fare il punto” e di “uscire allo scoperto”).

Nei versi di Marchetti si trovano molte tracce di questo periodo “segreto”, da cui riaffiora però, al di là di ogni sforzo di avvolgere il ricordo nella metafora o di occultarlo, in tutto o in parte,


«...un’indecente tenerezza

(foriera di lacrime importune)...»

“..ma è mai possibile…”in “Perdono (2016-2019) pag. 104


Si direbbe che il suo temperamento di poeta raffinato e civilizzato — dentro cui forse alberga, inesorabilmente, “l’homme révolté” di Albert Camus — lo porti a mal sopportare le intromissioni e le sorprese che si possono ragionevolmente attendere dal cosiddetto “mondo esterno”, a negare perciò la “verità” dei suoi sogni ad occhi aperti e dunque dei suoi racconti in versi, per professare, invece, la verità della vita che offre l’oblio del vino, dell’amore e del “vero sognare”:


«...le ore più belle

della mia grigia esistenza, le più

vere le ho vissute nei sogni,

nei sogni veri — si intende...»

“Letterina a R.V.” in “Perdono” (2016-2019) pag. 113


«Si fanno sogni buffi

in notti di sudore

ma nell’ombra dei tuffi

si sogna anche d’amore.»

Sogni” in “Perdono” (2016-2019)pag. 100


Un’ultima considerazione, magari un po’ “naïve”, che sembra non tenere conto di tanti altri poeti altrettanto convincenti (Alfonso Gatto, per esempio): la poesia di Loris Maria Marchetti ha il grande pregio di non intimidire e anzi di incoraggiare il lettore a fare propri i suoi versi, confrontandoli con il proprio vissuto di fatti, persone, luoghi e sogni. Credo che l’originalità della sua opera risieda proprio in questo esercizio, di umiltà e di stupore davanti alla quotidianità, degno di Cesare Pavese: un esercizio difficilissimo, almeno quanto la regolazione del respiro per una cantante lirica obbligata a passare dai più bassi ai più alti registri per lei raggiungibili.


«Se mai avvenga che ci si risvegli

nell’altra vita in forma di fiammella

o nuvoletta o (come è più probabile)

di coscienza di sé senza gravami

corporei e sia concesso, per la nuova

avventura, di portarsi un esiguo

bagaglio memoriale di visioni

terrene, della sfingea capitale

subalpina potremo ritenere,

come degni gioielli da salvare,

certe sere di maggio giugno settembre

dal più lieve sbocciare del tramonto

alla notte più fonda, impareggiabili

sequenze metamorfiche d’azzurro

limpidissimo in trionfo di nero…»

“Se mai avvenga” in “Mercante ingenuo” pagg. 50-51


Frutto di un’intera esistenza e dunque di un processo auto-formativo in cui si sono via via meglio definiti i confini dell’agire e del trasmettere, questi versi ad un tempo discreti e perentori, questa «vivida catena di pensieri trasformati in versi» (cfr. postfazione di Mario Marchisio) non possono non toccare nell’intimo il lettore attento e sensibile, mettendolo a parte della bellezza delle sue suggestioni visive e della profondità delle sue riflessioni creative.


«...[Il cielo di Torino]

…Non ha eccitato l’anima e la mente

ma ha propiziato

buone letture e sonni confortevoli.»

“Non è proprio lo stesso” in “Perdono (2016-2019) pag. 97.





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