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Matteo Bianchi, Fortissimo. Poesie 2008-2018, Minerva, Bologna 2019 Recensione di Edoardo Penoncini


Sola speranza oh lieve

Che di noi fa la vita trasmutarsi

Senza sole disfarsi come neve

Viltà tepore fuoco di cui arsi

(G. Giudici)

Se Fortissimo, titolo che richiama per stessa ammissione dell’Autore Pianissimo, è una provocazione, forse, allora, richiama anche Fortezza e quindi sfida il Lettore cartaceo, quello che assapora – ben diverso dall’internauta prevalentemente “feisbukiano” – il libro annusandolo, piegandolo; talvolta imbizzarrendosi per l’impossibilità di addomesticarlo lo maltratta, lo abbandona tra altri per poi tornare, penitente, a riprenderlo perché le sfide sono sempre avvincenti, anche quando è forte il rischio di uscirne sconfitti.

Fortissimo è la quarta silloge del trentaduenne Matteo Bianchi, edita da Minerva Soluzione Editoriali nella neonata collana «destinata ai giovani poeti», Cleide, diretta da Giancarlo Pontiggia e Cinzia Demi. Operazione lodevole, ma forse, nonostante l’età, per Bianchi si potrebbe dire che la definizione vada un po’ stretta, perché Fortissimo rappresenta un tassello del suo percorso che evidenzia una crescita costante, non diremo tanto rispetto alla raccolta d’esordio, Fischi di merlo, dove ad ogni pagina troviamo il «momento aurorale» del poeta, quanto a La metà del letto (Barbera 2015) che indirizza decisamente verso la maturità il Nostro. È silloge, Fortissimo, che inserisce il Bianchi in un “catalogo” dei poeti ormai consolidati.

Un poeta che pur frequentando i social ben si guarda – e di questo si ringrazia il Cielo – dal pubblicare in retei propri testi, proprio perché la scrittura richiede un continuo ritorno – Sbarbaro docet – al testo per quella limatura che ci permette di distinguere a prima vista il poeta dal versificatore, l’originalità dalla ripetitività. Poi resta vera l’affermazione di Giulio Ferroni che la letteratura è ovunque, ma questo è il punto: cosa è letteratura, cosa degno di oltrepassare il presente virtuale, la poesia visiva o l’oralità dello slam, dove più della parola, e la poesia è parola, quasi sempre vale la prestazione.

Ecco allora una buona occasione per plaudire alla poesia e al coraggio di intraprendere percorsi diversi della propria scrittura: «Rileggersi ogni volta significa accettare il proprio cambiamento, sebbene parziale, e asciugarsi buttando qualche vecchio abito fuori luogo per l’io lirico attuale» (pag. 7). Bianchi lo fa con una raccolta divisa in due sezioni, una “prosastica” (Diario di un amore) e una poetica (Mezzo Piano), e in premessa un’intervista che dice tanto del fare poesia e dell’essere poeta di Matteo Bianchi. Due sezioni per un canzoniere d’amore condensate nella dedica: «a M./ per l’ennesima possibilità», perché è solo in amore che esiste l’ennesimo e dove si può giocare con la parola perdóno/per-dono (pag. 26). Senza perdono e senza gratuità (un dono è sempre gratuito) non esiste amore.

Nella prima sezione la passione si snoda nell’arco temporale di nove mesi, periodo che contrassegna la gestazione, l’attesa, movimenti di andata e ritorno (con una Canossa all’orizzonte) tra flash del quotidiano: «Infilavi il cappotto e arrotolavi la sciarpa intorno al collo... seguirti con lo sguardo da una camera all’altra scalza e pensierosa con il plaid a scacchi sulle spalle» (pag. 28), improbabili speranze come «foglie d’autunno che rimangono sui rami, rondini d’inverno sui cavi spaiati» (pag. 29); poi l’uomo che nasce: «Ho deciso precisamente tre anni fa, che non avrei più usato nessuno. Che fosse per piacere carnale, o ambizioni di carriera, non ho più voluto ferire a tradimento e continuo a tracciare la mia rotta senza spada» (pag. 47), senza rinnegare nulla «in modo che la nostra vita sia tutt’uno con la nostra morte» (pag. 48). Parole d’antan vien fatto di pensare, se non fosse per quelle promesse ormai anche da uomo di casa, per l’esecuzione di quei lavoretti come riavvitare le viti del tavolo perché non sporgano più e perché là una bambina «un giorno correrà a nascondersi mentre prepariamo il pranzo, ancora con il pigiama addosso e i capelli incasinati, credendo di non essere trovata» (pag. 49). Prosa poetica, colta che si distende tra esplicite citazioni letterarie Dante, Pavese, Buzzati, Char o alluse, Roberto Pazzi, Shakespeare...

Nella prima sezione della raccolta Bianchi resta avvolto su sé stesso, nel mondo dei propri affetti scandito in un preciso arco cronologico, nella seconda sezione l’arco è dato nel sottotitolo, un decennio (2008-2018) di scrittura nel corso del quale il lavoro sulla parola indica la svolta con l’allontanamento dai suoni e «dagli schemi della tradizione, quasi fossero un mito per non sentirmi solo» (pag. 8). Il poeta non teme più la solitudine, ma la vede nello spazio emblematico del Mezzo piano.

Esiste il proprio mondo, tra testi che muovono nella scala passato/presente, il mondo altro si palesa nella possibilità del mezzo piano dove avviene l’incontro tra condomini, ma sono incontri casuali, come se l’altro fosse poco più di un’ombra molto meno di un’interazione tra persone, o forse l’interazione è più profonda nell’incontro sul mezzanino, là dove viene fatto di pensare che non s’incontrano altri, ma gli stessi personaggio e poeta, sul mezzo piano l’uno si smembra, si fa trance comunicativa tra due apparenti opposti, una sorta di finzione che induce il lettore a scegliere tra agens e auctor. Ma vi è un lettore che voglia destreggiarsi tra gli interstizi di questa scrittura colta, che annuncia auctoritates (gli eserghi) e introduce nel labirinto della presenza dei calchi, delle allusioni non per sfoggio ma perché patrimonio che Bianchi ha ereditato e introitato col duro lavorodi lettore e saggista? Un’arte anche la lettura, perché scrivere significa aver letto; forse è vero che è già stato scritto tutto, e nella concessione di avere anche letto tutto la scrittura si rinnova come qualunque cosa che vibra nel nostro mondo sensibile e offre la magia di un dialogo tra chi scrive e chi legge, ciascuno contraddistinto da un proprio stato e statuto.


Magra stagione.


La data del nostro amore

in tavola

sull’etichetta

di un vasetto rosso.

Quel giorno eterno

c’era già chi

pensava all’inverno:

pomodori secchi. (pag. 65)


Passato di sabbia al setaccio

bambino,

qualcosa si salva ostinato

(l’avevi scommesso all’alba)

qualcos’altro ribatte il sole

nei vetri sulla riva relegato,

pur essendo polvere tutto.

Polveri di un gioco insensato

che taglia. (pag. 67)


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