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Romano Morelli, La poesia nel tempo della metamorfosi

“Es sind

noch Lieder zu singen jenseits

der Menschen.”


(Vi sono

ancora melodie da cantare

al di là degli uomini)


Paul Celan, Fadensonnen



Abbiamo speso nel corso degli ultimi due secoli, qui in Occidente, gli ultimi spiccioli di tutto il sapere accumulato durante i millenni trascorsi.

Dopo aver esplorato l’umanamente esplorabile, stiamo ora lasciando tutto ciò che ci era conosciuto, le terre che avevamo addomesticato. Persino l’ultima, acre costa del nichilismo sparisce alle nostre spalle e fiammeggiando affonda dietro di noi.

Andiamo verso nebbie fitte entro cui distinguiamo solo vaghissime forme - forse riflessi - , segreti movimenti, rumori - forse echi.


***


Nella terra che stiamo lasciando avevamo nomi per tutto: angoscia, piacere, sogni, impazienza, delusione, strazio, pietà, egoismo.

Ora ci avviamo a privarci di un ultimo bene, il più importante: stiamo dimenticando l’incombere della nostra morte, non quella che ci accade da fuori – che è tutt’altro accidente, escamotage, caso, mera omonimia -, ma quella che ognuno di noi porta incistata dentro sin dalla nascita e che in passato, ricordandocene pervicacemente la precarietà, insidiava e dava valore ad ogni attimo che strappavamo al giorno, quella che avvelenava ogni piccola pozza di felicità in cui cercavamo di dissetarci.

Dimenticare la nostra costitutiva, inaccettabile, incomprensibile transitorietà sarà recidere definitivamente nozione, prezzo e senso di quello che è stato il nostro essere al mondo.


Entrare in un universo dove la nostra morte non esiste, entrare in un’esistenza eternamente rigiocabile e illimitatamente ricaricabile, significa abbandonare per sempre il tempo come l’abbiamo vissuto nei millenni passati per entrare in un loop ininterrotto entro spazi che appaiono orrendamente infiniti dove tutto, a partire da noi stessi, sarà indifferente e fungibile.

E ciò non può non apparirci mostruoso.

Eppure, sì, abbiamo speso tutto: saremo miserabili, immemori, vergini di passato, e da offrire avremo solo la nostra vita. Ma è, questa, moneta che non avrà più corso e non ci sarà nulla da comprare. Saremo agìti, trascinati – ogni giorno dimentichi e nuovi - a servire ai meccanismi infaticabili dell’efficienza e dell’efficacia.


***


Non è più tempo di porsi la futile domanda del “per chi e perché scrivere poesia”, perché oggi fare poesia significa essere qui - così lontani! - a scrutare il cuore della tempesta, accompagnare l’umano verso il suo destino e prenderne nota, mettendo alla prova ancora una volta, forse l’ultima, la forza del linguaggio.


Perché l’umano è linguaggio, siamo stati umani nei limiti del linguaggio. È il linguaggio che ha fatto umano l’umano, che ha popolato di umanità e senso il mondo, ce lo ha reso abitabile. Il linguaggio è stato il tesoro che ci ha permesso di creare il tempo e lo spazio. Nel linguaggio abbiamo depositato e attinto: “In principio era il Verbo”, “Ama il prossimo tuo come te stesso”, “Perché c’è l’essere e non il niente?”, “Penso, dunque sono”, “Aprile è il più crudele dei mesi”, e vi abbiamo piantato i “perché”, i “tuttavia”, i “domani”, i nostri “per sempre”.

Nel linguaggio appare e tramonta il possibile, dura la memoria, persiste l’attesa, si tramandano errori e conquiste, da lì si parte e lì si torna, più poveri o più ricchi.

E la poesia è consapevolezza del linguaggio.


Cosa c’è, per noi, fuori dal linguaggio? Tutto, e niente.


La poesia oggi, mentre la luce che dovrebbe guidarci – l’angoscia del nostro essere mortali - si sta spegnendo, non è per qualcuno; essa si aggira troppo vicina a un nucleo incandescente e insostenibile. Impossibile essere ascoltati mentre si cerca di afferrare e dire in tutto il nitore di cui si è capaci, la verità nascosta del nostro tempo, esprimere la consapevolezza e lo spavento che la vita stessa, la vita come l’abbiamo vissuta e trasmessa, è sul punto di estinguersi e che ci attendono al varco (oppure è un precipizio?) mutazioni irreversibili, indicibili, e l’amputazione di tutto il nostro essere passati.

La poesia non può che continuare a tener vivo il linguaggio: lo tiene lucido e in tensione cercando di imprimervi le tracce di questo trapassare. Perché, oggi, poesia è mantenere acceso il fuoco delle domande affinché continui ad illuminare i limiti insopportabili e tutte le impossibilità che ci circoscrivono e che ci definiscono come esseri umani.


Il poeta è orologiaio, mistico, fantasma, cartografo, enigmista, eremita, custode, tagliatore di diamanti, anonimo e misconosciuto donatore di sangue.



***


È in questo momento che l’amara solitudine del poeta e della poesia nel nostro mondo – nostro, perché noi l’abbiamo creato – travolto dall’efficienza che si autorealizza, diventa totale, paradossale libertà: il linguaggio poetico, liberato dalla necessità di “essere utile”, di “servire a qualcosa”, nel suo essere gratuito, conserva intatte tutte le possibilità di piegarsi alle sole esigenze dell’autenticità e della verità dell’epoca.


Cosa ne faranno delle sue parole i tanti ignari compagni di viaggio? Cosa possono cogliere nell’intrico faticoso e contorto, teso tra orrore e spasmi che deformano discorso, suoni, immagini? Come pensare che vogliano inoltrarsi, seguendo il poeta, nel territorio inospitale della coscienza della possibile fine, là dove pure ancora sussiste l’ultima luce?


Tuttavia, come lo hanno testimoniato in altri tempi tanti poeti, la poesia non può sottrarsi al suo dover essere parola di verità, ineffettuale, sì, ma irriducibile: perché, cosa ci rimane di Troia? Cosa di inferno e paradiso? E dell’albatros? Dell’amore? Cosa del mondo disertato dagli dèi?

Quali canzoni canta, cosa saprà mai veramente del suo viaggio, il viaggiatore che non ha messo in conto la possibilità del naufragio? Quali canzoni canterà, scendendo all’approdo?




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